Tutti i giorni 25 aprile

Mabel Morri | Play du jour |

Una pistola in ritiro: e perché?
«Ci si annoiava. Noi andavamo in un motel sull’Aurelia, in mezzo ai campi. Petrelli non amava giocare a carte. Così una volta si presentò con una calibro 22. Bastò quello perché alcuni di noi lo seguissero. Allora spuntarono Berette, Winchester, carabine. Un arsenale. Mettevamo dei barattoli sul retro dell’albergo e si sparava».
E Maestrelli sapeva?
«Il Mister aveva paura. Si affidava a me che avevo esperienza nel maneggiare le armi. Il guaio è che dopo un po’ il tiro a segno ci venne a noia. Così inventammo un percorso di guerra per il cosiddetto “tiro dinamico”, con sagome che spuntavano dai cespugli ed obiettivi mobili. Ci divertivamo come matti».
Finché arrivarono i carabinieri.
«E abbiamo smesso. Fecero qualche tiro con noi, poi però, ci mostrarono un proiettile acciaccato che era stato ritrovato in uno stabile che si trovava sul lato opposto al motel. Poteva scattare una denuncia. Decidemmo di finirla lì».
Era la Lazio fascista.
«Fascista quella Lazio? Ma se Maestrelli aveva fatto il Partigiano. In pochi eravamo politicamente schierati. Petrelli era di destra, io votavo MSI. Wilson stava con la DC. Chinaglia con nessuno. E Re Cecconi si interessava poco di politica. Si è voluto forzare la mano equivocando con la tradizione laziale e con il fatto che avevamo le pistole».

Con Sollier andavate giù duro. (ride)
«Lui entrava in campo con il pugno alzato e noi lo mazzolavamo. Ma faceva parte del gioco. La gente capiva e si divertiva. Altri tempi».

È Nicola Calzaretta che, sul “Guerin Sportivo” di febbraio 2010, intervista Luigi Martini, terzino della Lazio campione d’Italia 1973/74.
Quella Lazio la ricordano ancora. Quella di Maestrelli, quella della promozione dalla Serie B fino allo scudetto, una cavalcata che inizia nel 1971 per esaurirsi pochi anni dopo (con la malattia e la morte di Maestrelli nel 1976) respirando a pieni polmoni quegli anni calati nel rabbioso e incendiario contesto storico. Fu così un caso straordinario di – una parola oggi quasi abusata, sperata, e mai del tutto vera perché tendente sempre al compromesso come – inclusione, nell’Italia degli anni di piombo che sparava a ogni angolo e nella quale le piazze non erano le nostre, quelle di oggi, nelle quali scendere a manifestare. Erano piazze da coprifuoco, e sarebbero tornate tali, piazze nelle quali gioire, solo nel 1982, in un altro episodio radicale: la vittoria ai Mondiali di Spagna 1982, quelli che fecero, dopo il fascismo di quarant’anni prima, rispolverare la bandiera tricolore e riprenderla in mano per altri di eroi, non vestiti di nero e nemmeno con fazzoletti rossi intorno al collo, ma di azzurro, e che non avevano armi, ma un semplice pallone tra i piedi.
Questo fu, tra le altre cose, il Mondiale dell’82, una Liberazione anche per un periodo lungo, difficile, e che illusoriamente sembrava finito. Ma che felicità intanto, che felicità scendere in piazza senza la preoccupazione che qualcuno sparasse.

C’è un libro bellissimo.
Si intitola Le canaglie, edito da Sellerio e scritto da Angelo Carotenuto. In copertina, una foto in bianco e nero di Giorgio Chinaglia, attaccante yankees dei biancoazzurri, in pantaloncini corti, scarpini slacciati e, tra le mani, studiandolo come un giocattolo, un fucile col mirino.
Il libro non racconta solo le gesta del campo, racconta anche ciò che era la città all’epoca, il clima caldissimo, la morte assurda di Luciano Re Cecconi. Per la prima volta, una squadra è realmente lo specchio dei tempi e riflette tutto, le differenze politiche, le ideologie, il sudore del campo, la vita dura. Non sono ancora i calciatori laccati di oggi, quelli che le mani e anche i piedi non se li sporcano mai nemmeno con una dichiarazione scottante ma onesta, quelli erano uomini che non avevano paura, o se ce l’avevano non lo davano molto a vedere.
Era una Lazio in una Roma guerrigliante, la Roma del decennio degli anni Settanta, quella che riuscì a sfociare nell’ottobre del 1979 nell’assassinio di Vincenzo Paparelli, colpito durante un derby da un razzo che attraversò il campo, da curva a curva, e che colpì in pieno volto il tifoso, reo di tifare la squadra in quel momento “sbagliata”.
Anche in questo la Lazio fu la “prima”. In quell’ottobre del 1979 l’Italia si svegliò e scoprì ciò che non era mai accaduto e che sembrava inimmaginabile: la morte di un tifoso allo stadio. Fu la perdita dell’innocenza di tutto il calcio e nulla negli stadi, e sugli spalti, fu più come prima, andando a sfociare nel fenomeno hoolingans e nei nostri ultrà.
Il “Guerin Sportivo” nel 1976 pubblica tre pagine sulle preferenze politiche di alcuni giocatori di Serie A. Ci sono le elezioni e il “GS” domanda ai calciatori chi voteranno. Saranno poi risultati più che sorprendenti per il PCI e sono pagine incredibili se paragonate al mondo di oggi e ogni giocatore risponde, risponde senza vergogna quando dice MSI nonostante le maggioranze di DC, PCI e PSI. 
Il calcio come tante altri aspetti della vita di allora non esce esente dagli anni Settanta.
Stivalletti contro Clarks, eskimo contro Rayban, anche l’abbigliamento è fazioso.
Erano così quegli anni, come la morte di Paparelli insegna, si cadeva per poco, si moriva per il colore di una sciarpa, per un taglio di capelli lungo o corto, per un errore stupido.

Hanno messo pioggia per tutta la settimana.
Così dice il meteo aperto nell’app dello smartphone.
Domenica 25 aprile c’è stato il sole, un bellissimo sole dentro un cielo azzurro e terso.
Domenica 25 aprile è una data importante, perché posso scrivere queste righe in piena libertà di espressione grazie a chi, settantasei anni fa, ha perso la vita e ha combattuto per la libertà di tutti, anche quelli che oggi, l’oggi del 2021, la bandiera la arrotolano e la chiudono con un laccio nero a sottolineare che per loro il 25 aprile è un giorno di lutto, non di festa (per esempio, il consigliere comunale per FDI di Senigallia Massimo Montesi).
Hanno voglia di appiattire la valenza storica del 25 aprile.
Tutti, tutti dormono sulla collina.
Domenica 25 aprile, settantasei anni dopo, c’è idealmente una nuova ricostruzione, sperando possa essere pragmatica e concreta come nel dopo guerra.
Idealmente, in tempo di pace.

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(Quasi)