Il nostro disordine

Boris Battaglia | Crocevia di libertà |

In milanese c’è quest’espressione, «vess a pée», che io trovo bellissima. Letteralmente significa «restare a piedi» ma viene usata per dire di «essere senza soldi», maledettamente poveri.  «A pée» era il nome di un circolo anarchico, dalle parti di Porta Genova, che nell’ultimo decennio del Diciannovesimo secolo, cercava di raccogliere quei militanti non ancora passati al socialismo legalitario di Filippo Turati. Il principale animatore del circolo era un fornaio di neanche diciotto anni: Sante Caserio. Arrivato a Milano all’età di quattordici anni (era nato nel 1873), dopo essere fuggito dalla casa paterna di Motta Visconti, Caserio aveva trovato lavoro come garzone di un fornaio nel quartiere ticinese. Nel 1891 aderisce agli ideali anarchici e diventa il responsabile della distribuzione del settimanale “L’Amico del popolo”. Per sottrarsi all’arresto in quanto diffusore di stampa sovversiva, alla fine del 1892 si rifugia in Francia, a Lione, dove il 24 giugno di due anni dopo, per vendicare l’anarchico Auguste Vaillant, uccide a coltellate il Presidente della Repubblica, Sadi Carnot. Il 16 agosto di quello stesso anno Caserio sarà giustiziato sulla ghigliottina.

Cesare Lombroso, iatrocrate figlio del suo tempo che oggi ha una pletora di emuli tra virologi e infettivologi (figli del loro di tempo) e che, come capita troppo spesso ai medici, scambiava i pregiudizi della sua “scienza” per dogmi di verità ai quali conformare la società, dedicò a Caserio l’intero secondo capitolo del suo squallido saggio antropologico sugli anarchici, arrivando a trovare nell’epilessia paterna, che sicuramente aveva lasciato, secondo lui, tracce nel carattere di Sante, una delle ragioni del suo gesto.

Per nostra fortuna, come sempre, per ogni uomo del proprio tempo, ce n’è almeno uno che appartiene a ogni tempo, anche se, di solito, non viene ricordato con la stessa dedizione del primo.  

Pietro Gori, studioso di sociologia criminale, laureatosi nel 1889 con una tesi dal titolo di La miseria e il delitto, in cui confutava le teorie lombrosiane, dimostrando come nella maggior parte dei casi i comportamenti criminali fossero dettati dalle condizioni sociali e non da un’inclinazione innata, dedicò a Sante Caserio una commovente canzone, scritta sull’aria di una popolare canzone toscana.

Pietro Gori lo conosceva bene Sante Caserio, perché “L’Amico del popolo” lo dirigeva lui. Te lo avevo accennato, no? Nel 1891 Gori arriva a Milano per esercitare la pratica di avvocato presso lo studio di Filippo Turati, ma ha anche un compito politico.

Nato a Messina nel 1865 da genitori Livornesi, mentre studia legge a Pisa si avvicina al movimento anarchico di cui diventa un fervente attivista. Qui conosce presto il carcere per le sue attività sovversive. Nel gennaio del 1891 partecipa al congresso anarchico di Capolago, che oggi è un quartiere della città ticinese di Mendrisio, durante il quale viene fondato il Partito socialista anarchico rivoluzionario. Nello stesso anno Gori viene incaricato di recarsi a Milano per riorganizzare il movimento che sta perdendo terreno e simpatie rispetto al socialismo turatiano. L’instancabile attività di Gori, costruita attorno al settimanale della cui diffusione Sante Caserio era il responsabile, diede i suoi frutti. Gli anarchici dichiarati aumentarono da meno di 300 a quasi un migliaio (se si considera che la popolazione di Milano sommava 320.000 abitanti, il numero di mille militanti attivi non è una cifra trascurabile) e sintomatico fu il fatto che si avvicinarono all’attività politica numerose figure femminili (che nell’anarchismo italiano – lo avrai notato anche da questo racconto – erano sempre state una debole presenza).

Adesso seguimi. Lasciamo piazza Beccaria ed entriamo in quella che forse, dopo piazza del Duomo, è la piazza più famosa di Milano, e non certo per motivi piacevoli. Piazza Fontana. Due sono le date tragiche che la riguardano: il 9 maggio 1898 e il 12 dicembre 1969. Le affrontiamo entrambe. Ma questa volta andiamo in ordine cronologico.

Ti stavo raccontando del lavoro di riorganizzazione del movimento anarchico intrapreso da Pietro Gori a Milano nei primi anni Novanta dell’Ottocento. Ma dopo l’assassinio di Sadi Carnot, Crispi emana leggi restrittive contro gli anarchici e Gori si vede costretto a riparare in Svizzera a Lugano. Su pressione dei governi francese e italiano la Confederazione Elvetica lo espellerà, costringendolo all’esilio a Londra.

In questa occasione Gori scrive una delle canzoni che più amiamo.

Durante l’esilio, che lo porterà anche negli Stati Uniti, la sua attività di propaganda e proselitismo non si ferma. A San Francisco, il 15 marzo 1896 tiene la sua conferenza più famosa e programmatica: Il vostro ordine e il nostro disordine, nella quale, con superba applicazione logica, ribalta il significato di ordine e disordine come lo intendono i borghesi e i benpensanti.

«Fautori di disordine, si dice a quanti fanno professione di fede rivoluzionaria. Ma, di grazia, ordine è forse questo che non reggerebbe neppure un giorno se non fosse sostenuto dalla violenza, questo che i governi difendono con tanta brutalità di mezzi polizieschi e militareschi? È ordine forse la società in cui viviamo, nella quale il benessere, anzi l’orgia dell’esistenza è permessa soltanto a pochi privilegiati che non lavorano e che quindi nulla producono, mentre la moltitudine dei lavoratori, condannati alla fatica ed agli stenti, poco o nulla possono godere di tante ricchezze soltanto da essi create? Se ordine fosse, perché la forza delle armi, delle manette – della prepotenza governativa in una parola – per mantenerlo? L’ordine ammirabile della natura ha egli bisogno di altre leggi, all’infuori di quelle rigide ed inviolabili da cui dipende tutta l’esistenza delle cose, e lo sviluppo dei fatti e dei fenomeni? No! Perché questo è l’ordine vero; e le sue leggi sono ubbidite dappertutto senza bisogno di gendarmi, poiché se qualcuno si mette contro di loro trova nella sua disobbedienza il castigo meritato. Provate a ribellarvi alla legge di gravità, ad agire come se essa non fosse; lanciatevi nel vuoto senza altro sostegno e la caduta sarà inevitabile. Appunto perciò nessuno pensa, all’infuori dei pazzi, di agire in contrasto con le leggi di natura, quelle che veramente sono tali e non, si capisce, le altre che per tali ci vuol gabellare, e non sono, la morale artificiale delle superstizioni religiose.»

Grazie a un’amnistia, torna a Milano nel 1897, dove riprende il lavoro interrotto tre anni prima. Mi piace pensare che questa sua attività di educazione politica, abbia in qualche modo avuto il suo peso in quanto succederà l’anno successivo, tra il 7 e il 9 maggio: l’insurrezione di Milano.

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