Del fumetto di avanguardia

Carlotta Vacchelli | Charlie don't surf |

Invito alla lettura di Drago Droga

Non puoi e non devi ignorarlo e, allo stesso tempo, come ne scrivi, stai già scrivendo troppo. Per questo, probabilmente, se ne è detto poco. O perché non è ancora un fenomeno fumettistico di costume (eppure a Lucca 2019 è esaurito subito e 2.500 like dove deve farli li fa). O perché, con le sue storie minime, il suo disegno improvvisato, il suo grevissimo nonsense, l’imprevedibile gestione del montaggio (sorprendente, data la scelta dominante dello stampo di ravioli “vintage”), la densità di livelli parodici e meta-mediali, Drago Droga è un congegno di una certa complessità. Soprattutto, se lo valutiamo nel suo contesto, la tradizione inesauribile e consolidata, sempre necessaria (dunque da tutelare in ogni sua forma) in tutte le fasi della storia del fumetto (e, in generale, dell’espressione umana): quella del disegno – e del pensiero – indipendente.
O forse, in fondo, perché non c’è molto da dire.
Oppure, tutto questo insieme.
Su queste premesse, impostare una lettura critica senza confondersi nei fumi del misterico, incastrarsi nelle cabale del sibillino, incepparsi nei meccanismi dell’ermetico, smarrirsi nei labirinti del metafisico – senza, in altre parole, rischiare di infittire di stratificazioni una faccenda semplicissima e appesantire un dispositivo delicatissimo – la comicità – non è cosa facile. Perché, come Drago Droga insegna, il cazzo va chiamato cazzo, e la merda, merda.
Restiamo dunque terra terra, ben ancorati a qualche sparuta certezza.

Partiamo da Duchamp, anche se si dovrebbe andare ben più indietro, perché, naturalmente, ogni epoca – forse ogni decennio, e ogni forma d’arte, ha un proprio Duchamp, ma Duchamp conviene a questo discorso, come immediata icona di avanguardia. Forse Piero Manzoni calza anche meglio, data la provenienza cremonese, l’alienato carisma, e, ovviamente, la merda, uno dei due poli tra cui questo fumetto oscilla.
Aggiungiamo l’abbandono di ogni sovrastruttura estetica o narrativa per tracciare il segno (ed ecco il secondo polo, il cazzo), uniamolo alla democrazia del web e a una mente irrequieta e tragicomica, quella di Fumetti Sbagliati, aka Riccardo Ronchi, che dal 2014 imbratta A4 trasformandoli in tavole folgoranti, e che preferisce al genere ornato, patinato, ma anche solo graficamente gradevole l’estetica efficacissima e “sciatta” di Davide la Rosa, Maicol e Mirko, dr. Pira, Pierz, Chiolerio – e un altro paio di soggetti visionari che mettere tutti insieme in una stanza a disegnare deve più o meno dare l’effetto di 100 Bojack (non tanto il personaggio quanto il contenuto della bustina assunto da Sara Lynn in quella famosa puntata).

Prendiamo dunque una più generale tendenza interna alle varie forme contemporanee del fumetto d’autore (nel senso che è legato a un singolo autore, senza insensati confronti con altre ovvie esigenze della carta stampata a fumetti), con la consapevolezza che gli autori di fumetti di nuova generazione, piaccia o no, partono dal (e necessitano del) web. E con un’altra, e più grande (e onerosa) consapevolezza, ovvero che tutto, nell’arte (/nel fumetto) è già stato fatto/detto/pensato e tutto è presto, di questi tempi, fagocitato dall’appetito titanico di un leviatano di memi, like, follower, imperscrutabili algoritmi, tiktoker, commenti e reazioni.
Ricorriamo alla rivoluzione del ready made, lasciandoci condurre dalle avanguardie novecentesche fino all’arte povera, e spostiamo l’attenzione su un linguaggio (arte/mezzo/forma espressiva), il fumetto, che necessita della linea e che da questa non può prescindere.
Facciamo una pausa.

Riprendiamo.

Guardiamo, negli autori sin qui citati, all’uso della linea come unità di espressione base, nei termini del tratto povero, ovvero tracciamo un parallelismo tra il materiale povero dell’arte povera e la linea del fumetto “disegnato male”. Otteniamo la linea povera e scomodiamo un’intera tendenza fumettistica (con esempi ben precedenti, come l’immenso, archetipico LMVDM, o, cercando nell’ultima generazione, le talentuosissime Zuzu e Fumettibrutti, per parlare di due esponenti di successo critico, che hanno presto intuito la potenza espressiva del disegno non canonicamente bello).
Troviamo un contenuto che si adatti a questa forma: che comunica, veramente dialogando con l’underground più proteiforme, una parodia di tutto quello che fumettisticamente accade in questi ultimi anni: l’obsoleta e tenace prospettiva sul fumetto come arte divisa in sottocategorie di serie A e di serie B, le nuove tendenze del fumetto indipendente di carattere autoreferenziale con ambizioni artistiche, pubblicato su Facebook o Instagram; le pillole di esistenzialismo quotidiano (spesso stucchevole) della tavola autobiografica da blog; il segno fumettistico tanto più apparentemente spontaneo, quanto più studiato o costruito; la ripetitività insita nelle storie seriali intitolate al medesimo personaggio; lo stesso fumetto indipendente che indulge alla volgarità, spesso impiegata a fini di shock estetico e che qui si profila come pressoché unica (e intenzionale) forma di comunicazione («cazzo merda!»). Ammessa e non concessa la scelta dell’alter-ego in forma di pupazzetto: un’ulteriore divisione dell’io autoriale – operazione (in senso chirurgico) che, nell’arte fumettistica, quando riesce, può veramente condurre a stati di grazia. E con Drago Droga (e la sua lieta brigata di doppi paranoici, il pulsionale Grifone Ingrifone, il meditativo Freezer, l’ancora acerbo ma già sintetico di certi lampi di folle acume Dective Onan) lo stato di grazia è un’impennata di 64 pagine. Le ho contate personalmente, perché manco il numero di pagina è concesso, la veste cartacea di quest’opera costituendo la parodia stessa di un albo a fumetti, dalla copertina recitante «tratto da una storia vera» (eppure è proprio così!) alla scritta in francese (o errore di scrittura) “fin” in calce alle tavole.

Drago Droga è brillante, disgustoso, umorale, idiosincratico, sbagliato, esilarante, nevrotico, fulmineo, adorabile, cretino, preciso, vivace, sconcertante. Drago Droga è un fumetto-performance, in cui il grado zero di comicità, esibito più che effettivo, è il risultato di una riflessione onesta su un’arte che si padroneggia e un ambiente che, nei pregi e nei limiti, si conosce bene.

Non è per tutti i palati, perché fa sul serio e ha pochissime pretese. Cioè, fa ridere, ma non troppo, quando ti accorgi che con la risata scoppia una problematica stringente, radicata nell’attenta osservazione di temi non proprio irrilevanti: comunicabilità e comunicazione, informazione, web, senso di inadeguatezza rispetto alla società, intrattenimento, arte, fumetti, inquietudini generazionali. «Cazzo merda!» e simili esternazioni, come il conato di vomito quando il Drago dovrebbe sputare fuoco (e viceversa), sono sì lo sberleffo dada, ma nel suo senso profondo di scarica liberatoria che salva dalla tragedia dello scontro tra sé e mondo, di puntuale incapacità di comunicare altrimenti la vertigine cosmica del vivere, dell’offerta universale dell’arte all’altro, per aiutarlo a pensare in modo diverso da prima.

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