Quando ti manca il wrestling, anche una gomitata in bocca fa piacere

Beniamino Malacarne | Squared Circle |

dell’Onorevole Beniamino Malacarne (Stefano Tevini)

Molte storie di wrestling cominciano in macchina. Molte delle mie, quantomeno. Perché devi viaggiare, per salire su quel ring. Non te lo montano sotto casa, quasi mai. Che poi montare il ring è una sbatta allucinante: scarica il furgone, le travi, le tavole, le corde, il pezzo che manca, la gente che non si disciula alle porte d’ingresso, fa collo di bottiglia e tu sei lì che aspetti di passare con le mani piene di ferro e l’aria che si carica di bestemmie. Uno sbattone di proporzioni olimpioniche, ma un piacere. Soprattutto quando non sali sul ring da mesi. Tanti mesi. Troppi mesi. Una cifra proprio. Perché nel conto da presentare al virus demmerda ci stanno pure mesi e mesi senza fare uno show come si deve, senza alzare la cintura in faccia al pubblico, succhiare il loro odio come una zanzara tigre per diventare grande come il Cristo Redentore di San Paolo in Brasile. Roba che va bene anche montare il ring. E c’ero andato, a montarlo, qualche giorno prima, portandomi nella pancia quella sensazione tipo il pacchetto gigante sotto l’albero e tu sai, oh cazzo se lo sai, che c’è dentro qualcosa che aspetti tantissimo ma manca ancora qualche giorno e allora te lo guardi, oh se te lo guardi, con la bava alla bocca. E poi quel giorno arriva. Ma non stiamo parlando di regali di Natale, stiamo parlando di wrestling, quindi quando quel giorno arriva tu ti trovi in macchina, con la sacca del wrestling sul sedile posteriore perché il baule della Picanto è microscopico, la lattina di Red Bull bella ghiacciata incastrata alla meno peggio nel porta oggetti di fronte alla leva del cambio e la playlist di Spotify a cannone. Prima tappa: casello Mantova Nord. Faccio la macchinata con il mio compagno di coppia, il playboy Mr. PDP (Uau! Pugno di pollice!), e Luke Zero, lo spocchioso Campione delle Regioni. Ci arrivo in un lampo, gasato di matto. Li carico su e proseguiamo. Si parla dei match, dei nostri avversari, di quanta cazzo di voglia avevamo di sentire il bordello del pubblico in fiamme. Destinazione: fiera di Modena. Incontriamo gli altri, c’è uno stand che fa fare i giri sul quad. Ottima occasione per sfoggiare la potenza e la viulenza delle braccia da wrestler. Poi insomma, essendo una fiera ci sono gli stand della porchetta, delle birrette, della focaccia, e non vuoi rifocillarti, che dopo hai una lotta senza quartiere? Dopo la doverosa sosta ai pit stop, giriamo per la fiera a fare i bulli con le cinture. Le mettiamo in spalla, ci fermiamo agli stand. Oh mi raccomando che abbiamo lo show alle sette, eh? Vi aspettiamo. Guardate che se non venite (inserire qui gesto minaccioso a piacere), intesi? Perché a noi piace fare gli sboroni. E alla gente piace vedere gli sboroni. Il wrestling è un’allucinazione collettiva consensuale e sboronissima, dove tutto è sopra le righe, dove io mi rivolgo a tutti come cittadini ed elettori e il mio compagno di coppia fa ballare il pettorale per tutte le ragazze dicendo che il suo cuore batte solo per loro anche se non è vero, batte per tutte, perché da quel punto di vista lui è così davvero, non recita mica. Però interpreta, alla grande, anche davanti all’obiettivo. Oggi c’è il set fotografico per fare un po’ di materiale, e ci mettiamo piuttosto presto in costume. Ecco, allacciarmi gli stivali, per me, è un gesto profondamente rituale. Laccio nel buco – incrocia – laccio nel buco – incrocia. Semplice semplice, ma ogni incrocio è un passo dall’altra parte, è l’attraversamento del cancello che porta a sboronelandia. Quando ho infilato il body nero, i pantaloni grigi fighissimi in tessuto pazzesco con il simbolo della Repubblica Italiana su una coscia, e gli stivali in pelle nera mi fasciano i polpacci sono di là, e sono l’Onorevole Beniamino Malacarne. Svelto di lingua (non in quel senso, cioè sì, anche in quello), che mena come un fabbro. Quello che non lo dà a vedere ma dentro vibra quando tocca le corde per sentire se sono tirate, accarezza il tappeto e si sistema la fascia tricolore sulla spalla prima di entrare. E nel frattempo ci siamo. A colpi di monologo interiore postumo siamo arrivati alla fine del match prima del nostro. L’arbitro conta. L’annunciatore annuncia (e che dovrà mai fare? Si fosse chiamato, che so, sassofonista…). Ci guardiamo un’ultima volta. Tutto chiaro? Sì, dai. E se non è proprio tutto chiarissimissimo vedrai che qualcosa c’inventiamo. Ed ecco il momento. L’annunciatore (ancora lui!) chiama i nostri avversari sul ring. Due psicopatici accompagnati da una bambola vivente (it’s wrestling, baby). E poi chiama noi. La mia faccia da cazzo delle grandi occasioni si mette su da sola. Apro la fila e punto il pubblico. Cammino al di qua delle transenne, faccio per stringere mani da cui mi ritraggo all’improvviso. Cazzo vuoi, comune mortale. Io sono l’Onorevole Malacarne. Stai al tuo posto. Saliamo sul ring. Perquisa. Non abbiamo oggetti contundenti nascosti negli stivali, ma vi prometto che saremo scorrettissimi lo stesso.

E lì si parte. Faccio surf sopra un cavallone di endorfine mentre gaso il pubblico e tiro gomitate scorrette favorendo il mio tag team partner. Tocca a me. Entro. Appendo il mio avversario alle corde (“come mutande al sole”, dice il nostro commentatore ufficiale), gli sparo un uppercut che quasi vola giù dal ring. Corro dalla parte opposta, rimbalzo sulle corde e lo butto giù con una gomitata. Scendo anche io, lo incastro nelle transenne e gli alzo la maglia mentre faccio cenno al pubblico di fare silenzio. Tutti muti. Mostro la mano aperta come se fosse il piede di Maradona. Però è una mano. Tutti la guardano, hanno capito cosa sta per arrivare e fanno certe facce che sembrano aver ciucciato un limone. E lo schiaffo cala sul petto. Ciaf! E per chi se lo fosse perso, calo il secondo. Ciaf! Urla. Insulti. Coretti. Sboronaggine a pioggia. Risalgo sul ring. Altri minuti a bagno nelle endorfine. Trovo il tempo di prendermi una gomitata in bocca, ma quando il wrestling ti manca così tanto va bene anche quella, anzi, dammene ancora cazzo. Ora di chiudere. Chiamo la nostra nuova mossa finale. “Facciamo una cosa a treeeeeeeh!”. Risate dal pubblico, ovviamente. Rimbalzo sulle corde, il mio compagno di tag fa lo stesso dalla parte opposta. Chiudiamo l’avversario in un sandwich di dolore e compressioni ossee. Schienamento.

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E gliela alzo in faccia, la cintura. La prendo e la alzo come il babbuino che mostra Simba nel Re Leone. I Bunga Bunga sono ancora campioni di coppia. Adrenalina ed endorfine che pare di stare nella stagione dei monsoni. Cazzo che roba. Come quelli veri, facciamo le interviste post match con il fondale con tutti gli sponsor. Tipo la Champions League, ma per fare quel che facciamo noi di palle ce ne vogliono due. L’ho letta da qualche parte e me la rivendo, tiè, tanto sono l’Onorevole, quindi sono cattivo. Rientro nel backstage e mi sciolgo contro una parete. Mi rilasso, mando un video saluto a un ragazzino e mi preparo per le ultime foto col pubblico prima di andarmene. Mi mancava. Cazzo se mi mancava. Anche se al ritorno ho cannato strada e da Mantova, invece che a Brescia sono finito ad Affi. Ma ci sono finito in uno di quei momenti in cui l’ingranaggio fa clic e gira nella direzione giusta, in cui tutto va come deve andare. Quei momenti che va bene così.

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