Andrà tutto benissimo

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Quando, prima della beata (non è obbligatorio che lo sia stata per tutti, chiaramente, non mi si offendano i workaholic che non vedevano l’ora di tornare) pausa estiva, si era riflettuto sull’altrove in un altro tempo, era stata la dimensione spaziale a prevalere. E uno dice, sai che sorpresa – tutto il tempo che non è ora equivale a una distesa sconfinata, mezza irrimediabile, mezza densa di promesse, che però ancora non esisterebbe. Definizione che si ottiene, a costo contenuto, dicendo «non ora». Il tempo lo diamo per scontato, quello che conta è essere da un’altra parte a vivere meno peggio. Perfetto, si va a rimettere in moto le meningi, in mezzo allo stupore postoperatorio dei primi giorni di ripresa lavorativa, e sulla via della consegna del pezzo si para il cavaliere nero del «proprio qui proprio ora». Alla fine si fa gli scherzosi, ci/vi serviamo antipodi che potevamo anche risparmiarci, ma in realtà ci avviluppiamo di buon grado nel nostro stesso gioco e due passi più in là guardiamo nell’abisso da cui, almeno in apparenza, rifuggivamo al passo prima.

Proprio qui proprio ora. E non si passa!

Quando si tocca l’hic et nunc avviene un ribaltamento in termini di preminenza tra spazio e tempo. Lo spazio si fa irrilevante, perché di qui, adesso, sembra non essercene altro diverso da quello che occupi con ossa, ciccia, impronta termica e esalazioni di anidride carbonica. Il confine epidermico definisce lo spazio del qui in modo irreparabile. Non ci facciamo caso, ma tanta della costrizione che proviamo a livello del diaframma nasce qui. Assurge invece a questione essenziale e tantalizzante quella del tempo. Quando diciamo ora si diventa Achille e la tartaruga in retromarcia – quel momento lo possedevamo ma non è proprio adesso adesso, basta già applicarsi a volerlo dire e pronunciare che già se n’è andato. È qui ma se provo a guardarlo, a metterlo a fuoco, non riesco che a percepire la latenza della sua presenza recente. Argomento complicato dal punto di vista della fisica e delle neuroscienze e una vera e propria giungla filosofica, dove si sono profilati orientamenti che vanno dall’eternismo al presentismo passando per la teoria del growing block universe. Esiste tutto quello che sperimentiamo nel tempo, esiste solo il momento presente, no, esistono solo passato e presente.

Dopo un po’, ma neanche tanto, la domanda diventa «che vuol dire esiste?» e si riattinge ad uno dei vari spillatori innestati su quel vaso di Pandora che facciamo finta di tenere chiuso. Non si tratta di ipocrisia, gli interrogativi ci sono ed è giusto fronteggiarli – solo che non si può chiedere a nessuno di farlo evitando di utilizzare i propri mezzi e mezzucci. Sono essenziali, nei casi più eleganti diventano un lessico, o uno stile – ma sono oggettivamente posticci e del tutto rinunciabili. Ma, come un vetrino affumicato, ci impediscono di cuocerci le retine nella contemplazione di certe sostanze e fenomeni della natura e quindi conviene essere accondiscendenti e lasciare che si usino. Tanto ho la sensazione che una «conoscenza del tremendo» anche anteriore al linguaggio abiti le menti di tutti e ci faccia fare cose anche assai spiacevoli con un ruolo simile a quello del bosone di Higgs per le particelle: fornire massa.

Non sono equipaggiato – e soprattutto sono sufficientemente stanco (o poco ritemprato) per potermi misurare nell’impresa icaresca di avvicinarmi a questi temi in modo serio, o forse ancora meglio, rispettabile, ma non tutti evolvono per essere destinati a imprese intellettuali virtuose o alla gloria. A volte succede di fermarsi al livello bettola-malfamata-a-tarda-ora-di-notte-feriale (anche se vai materialmente a letto alle ventitré e quarantacinque da anni). Quando quelli bravi e costruttivi, quelli che, almeno a quanto sembra, non finiscono schiacciati dal terrore di certe considerazioni, dormono raccogliendo energie per il produttivissimo giorno successivo. Dove sta girando questo discorso si inizia a intuire, vero?  Right here, right now ricade un po’ in una luce termopilesca da scontro tra sottolineatura della preponderanza sacralizzata, in varie accezioni di valore, di questo fantomatico tempo presente come tesoro inestimabile e affermazione di quello stesso tempo come evenienza vertiginosa e perturbante. Ideologicamente tutti a propalare la prima verità con un ricco breviario di detti, proverbi e succosi aforismi. Di fatto tutti assenti dall’adesso, a pettinare care memorie, a idealizzare sui social network tempi andati con compagni delle elementari ormai ridotti a omini e donnine Lego sul diorama della vita sistemata, o a vagheggiare la plasticità voluttuosamente indimostrabile di troppi futuri alternativi. Sul momento (appunto…) immagino una Amélie sardonicamente modificata per captare sull’istante la qualità di tutte le sensazioni provate da tutti gli umani, rispetto all’istante puntuale. Cosa ne viene fuori? Io mi raffiguro un colossale mostro fumoso di ansia acre e altro materiale irritante, tra cui, a parte quei casi nei quali la vita è alle strette con questioni di incolumità fisica e sopravvivenza, una ghirlanda infinita di considerazioni fini a sé stesse, pronunciate con l’unico scopo di fare bella figura, dimostrare che va tutto bene o che è tutta colpa di qualcuno (altro).

Si sente il presente?

Oggi come oggi l’occupazione del momento presente con quel che ha la natura dell’intrattenimento (o della consolazione) pare essere lo scafandro, la tuta spaziale, per riuscire a sopravviverci dentro. E visto che non possiamo sempre autoalimentarci della contemplazione dei nostri presunti investimenti di successo nella vita, servono degli aiutini. Il mercato, lo sappiamo, ne è pieno e uno dei grandi interrogativi della storia è perché debba trattarsi quasi sempre di clamorosa spazzatura. Chi o cosa spinge la spirale discendente della qualità? Tra poco ritornerò sul tema.

Va bene, e allora uno dice, visto che siamo qui un po’ a parlarne e un po’ no: usiamo la musica. Come no. O meglio, sì, ma esiste una legge matematica, a proporzionalità abbastanza inversa, che lega il piacere di suonare e il piacere di ascoltare. La musica demmerda™ di oggi, difatti, non richiede ormai più di essere eseguita, a volte non sarebbe neppure possibile (hai detto a una DAW, un software, cosa doveva fare e l’ha fatto lei e quando si va dal vivo tocca riprogrammare qualcosa per ricreare quella non-esecuzione o si va di playback e tanti saluti), anche i soggetti umani sono ormai ridotti a pura incidentalità, ci metto tizia o tizio, nominalmente le star, ma materialmente estremamente sostituibili. [N.B. non mi sto riferendo a una lunga e pur dignitosa tradizione di musica elettronica, ok?] Se fa schifo e chi la ascolta è felice non è una festa di democrazia al ribasso ma un’orgia di stercofilia, comprensibile se si è tra scarafaggi ruzzolatori di escrementi, meno se hai il DNA da sapiens sapiens. Non può esistere piacere nel suonarla perché quasi non c’è chi la suona – la si fa andare e ci si fa altro rumore sopra. I professionisti presi in questo perfido ingranaggio industrializzato cercano di metterci quello che possono: del gusto, un tocco, l’idea che ci si paga l’affitto. A tarda sera, dopo una giornata spesa a fare lezione a ragazzini mal motivati o a gente come me, si ritrovano per suonare quello che gli piace. Spesso è jazz, ne abbiamo parlato. Nel pozzo di controsensi che è l’America del Nord è nato un modo di suonare in un terreno di coltura la cui marca era l’apartheid e la visione del tempo la clandestinità – in quelle condizioni ci sta che il mito del progresso vada alle ortiche e si inizi a suonare in modo più circolare. Ci si diverte e, probabilmente, non ci si aspetta neppure che qualcuno stia lì a sentire perché non era neppure quello lo scopo.

Miles Davis' brilliant, pioneering fusion era | The Current
Miles: «being a star has made it possible for me to get insulted in places where the average Negro could never hope to go and get insulted»

Ovviamente, e lo sanno anche i sassi, il bello del suonare così è stato soffocato, oltre che da logiche di prodotto di largo consumo, dalle colate di bitume rovente delle smanie dei singoli, ivi inclusi gli attori non tecnici di questo panorama. Anche senza scomodare il mercato della cultura e quello discografico, esistono tensioni micidiali al livello di un ecosistema che contempla gestori di locali, organizzatori di eventi, un po’ di pubblica amministrazione, fornitori di attrezzature, i musicisti delle varie specie, attriti che si risolvono quasi sempre in discussioni intorno a cachet in contanti e beni di conforto che non si materializzano, attrezzature fatiscenti, fonici equivoci e altre configurazioni tragicomiche.

Non avevo il programma esplicito di fare l’elogio della musica eseguita in tempo reale, però mi ritrovo più e più volte a ricordare la differenza sostanziale, anche rispetto al modo di stare nel tempo, tra la musica pensata, escogitata, confezionata senza lo strumento in mano, e quella suonata. Nella seconda qui e ora rappresenta tutto l’orizzonte possibile del mondo – cognitivamente tutto si restringe, a volte in modo asfissiante, a due mani e a una parte, a controllare che fanno le prime e a capire se si sta imbroccando la seconda (nel jazz a capire se mentre te la inventi e la suoni funziona). C’è veramente tanta pressione, però non si può dire che non sia un tipo di esperienza che non fa sentire l’immediatezza. In tanti casi e per molto tempo la sensazione è quella di dover riuscire a restare in piedi su un tapis roulant che tende a correre un po’ troppo. Anche qui accade un fenomeno subottimale che fa sì che al crescere della capacità tecnica e dell’esperienza il livello di confidenza cresca – una crescita agognata ardentemente e spesso guadagnata a costo di studio ed esercizio, quella che ci ripromettiamo di usare per ampliare il nostro cono di visibilità, per riuscire ad anticipare meglio i cambi e i passaggi così da inserirsi in modo più fluido e armonioso con fill e assoli e portare brillanti gradi di finezza influenzando le trame armoniche scegliendo deliberatamente una certa nota o una certa scala, il tutto senza perdersi. Ma non dobbiamo prenderci in parola, vogliamo solo essere più impressionanti, più veloci, più sbrodoloni, e lo diventiamo, appunto, ottenendo come risultato quello di finire per trasformare occasioni di jam session in distillerie di odio per i partecipanti e noia per gli astanti.

Perché dobbiamo sempre impegnarci alacremente per rovinare tutto? Come se la freccia del tempo non provvedesse già ad accompagnare tutto verso l’opportuno decadimento…

Se non altro, però, istantanee punture di soddisfazione possono sgorgare fuori dall’esecuzione di un passaggio, dal modo in cui la si è buttata dentro tutti insieme per qualche secondo, dal portamento che siamo riusciti a conferire, per un po’, al pezzo. Da questo punto di vista, la sostituzione del linguaggio verbale con quello musicale consente di accedere a simili momenti-perla. Con il linguaggio-linguaggio invece si resta sempre incarcerati in tutto il sistema di ermeneutica al microonde con cui tentiamo di lanciare il sasso del cercare un senso, nascondendo la mano nell’equivalente di sacchetti di patatine fritte (dove un tempo c’era la sorpresa, untissima). La fuga dall’orlo del precipizio richiede di andare ad abbracciare un’emittente apotropaica – e per qualche ragione, nella nostra società, il ruolo svolto dalle divintà ctonie da rabbonire si è tramutato, sull’asse del grottesco, in un credo animato da figure e cerimonie di tipo regressivo, quell’impronta che ai tempi si limitava a giornate tipo Saturnalia, nelle quali ci si sfogava un po’, prot-sbomp-boink-burp-zot! e poi si tornava alla vita di sempre, dove se a qualcuno girava male ti spedivano con la comitiva dell’ora di pranzo, nell’arena, per le esecuzioni. Ora invece no, è carnevale tutto l’anno e il genitale e l’escrementizio ballano il can can tutti i giorni a tutte le ore su tutti i canali di tutti i media. Mai un momento di requie. Le membrane devono essere sollecitate con costanza, notte e dì.

Nel clima da venticinquesima ora prima della ripresa del lavoro ho avuto modo di visitare luoghi storici come Villa Adriana o i sotterranei del Colosseo. In entrambi i casi un paio di colpi alla bocca dello stomaco sono arrivati dal concetto di entertainment e dalla sua relazione imperitura con l’economia politica della schiavitù. Per accentrare tutta quella roba divertente (e supersanguinaria) rendendola gratis (per uno o per il popolo, fa lo stesso) era imprescindibile un utilizzo costante, a ciclo continuo, come fai con un altoforno, di torme e torme di schiavi – individui spendibili, consumabili, nel backstage della struttura scenica. Oggi visitiamo con venerazione i resti delle strutture ma la decadenza deve essere stata abbastanza vertiginosa da quando iniziarono a mancare le risorse per fare tutta la manutenzione necessaria. Non era una questione di mercato ma di bilancio dello Stato, di fondi dell’imperatore. Oggi, nel mercato, gli schiavi che girano gli argani della macchina scenica sono anche i felici fruitori, a volte paganti a volte no, e non c’è bisogno alcuno di costruire impianti spettacolari come un Anfiteatro Flavio. Il pensiero che non resteranno tracce millenarie di troppe simili oscenità è quasi consolatorio, anche se mi viene da chiedermi quanto grandi ed estesi stiano diventano i data center  per alloggiare la quantità inimmaginabile di media di cattiva qualità che tutti stiamo producendo… Che siano loro le piramidi di domani? Quaranta secoli di stupidità vi guardano da questi rack?

person standing on concrete beam facing mountain
Chissà cosa ci archiviavano di così importante…
[sì, certo, le immagini di merda tipo Buongiornissimo Kaffèee]

E così, tra vari cupio dissolvi in soluzioni corrosive, accomodamenti scoreggioni di anime da divano ed evasione a scaffale per classi non più operaie logore e disperse, siamo approdati a un vissuto di momenti di intrattenimento dove il modello di fruizione somiglia più a quello della perfusione endovenosa che ad altro. Ma è probabilmente una reazione, una resa rispetto al fallimento di istanze attive diverse, che forse c’erano ma sono finite puntualmente frustrate. Il momento presente, acutissimo e facilmente definibile, a prima vista, nelle circostanze dolorose o di pericolo – ho il ricordo di com’è il momento in cui l’auto che ti taglia la strada ti ha fatto volare in alto sopra il cofano, prima di colpire l’asfalto c’è il tempo per dirsi proprio qui proprio ora in modo chiaro, quasi con calma, per poi subire le inevitabili conseguenze – appare terreno di spasmodica conquista in quelle piacevoli, quelle da capitalizzare, espandere, amplificare. La lotta è quella per farlo durare ma è impresa priva di senso e conduce a delusioni essenziali. Qui e ora è, diciamocelo, nella maggior parte dei casi, un problema e un peso.

Dite che sto esagerando?

Va di moda la cosiddetta mindfulness, il libro che ha dato il via al tutto è del 1990 (sono passati trentun anni, chissà cosa è successo in questo tempo nel percorso dal libro al tiktoker di turno…): avevamo già lo yoga e il buddhismo zen e altro ancora, ma no, serviva un impacchettamento diverso dal solito treno di concetti, ed ecco quello avvenuto a cura di Jon Kabat-Zinn, una persona di cui non so niente (come della disciplina che pare avere definito) se non quel che mi dice la pagina Wikipedia su di lui, uno brillante, sicuramente, un PhD in biologia molecolare e parentele simpatiche (Howard Zinn era suo suocero), che ha portato il discorso su un terreno orientato a un obiettivo primario: la riduzione dello stress. L’espressione completa è mindfulness-based stress reduction. Dove mai lo abbiamo raccattato tutto questo stress? Ma è semplice, il luogo della formulazione delle paure, del timore & tremore che si valorizza nella valuta corrente chiamata stress non è altro che qui e ora. Facciamoci due risate gratis, volete? Il titolo del libro di Kabat-Zinn è Full Catastrophe Living, in italiano è stato tradotto come Vivere Momento per Momento.

I rest my case… Bentornati, mentre qui, ora, la domenica sta già finendo da un po’.


Due considerazioni, in appendice, una dallo scarno diario di pratica musicale, l’altra in chiave quasi da #internidiunbassista.

Parto dall’altra. Dopo un po’ che hai usato l’account Netflix hai via via smaltito le cose migliori quindi abbassi un po’ il livello delle pretese e delle aspettative e inizi a guardare qualcosa. Ecco, non mi metterò a recensire a modino la serie Lost in Space però sappiate che è una vera merda. Fatta coi soldi e tanta pigrizia, sloppy è l’aggettivo inglese più calzante, zeppa di stereotipi, personaggi monodimensionali, non sequitur e buchi narrativi goffissimi, ma, soprattutto, di tanta tanta fiducia prefabbricata comprata allo shopping mall. Ho provato a contare, in una puntata, il numero di volte in cui un personaggio qualsiasi pronunciava frasi del tipo «andrà tutto bene» in condizioni costantemente e noiosamente parossistiche (del tipo si muore tutti tra quattro ore, minuti o secondi). Ho perso il conto rapidamente. Come ebbe a dire Bill Hicks di Basic Instict: «… Piece of shit! Walk away! That’s all it is!»

Nei giorni di vacanza casalinga ho provato a frequentare zone musicali più pop, quelle dove la scrittura della parte e la sua esecuzione corretta,senza sbavature o devianze, sono materiali essenziali. Mi serviva qualcosa dove il basso fosse al servizio di un prodotto con un certo stile, anche attraente – e sapevo a quale porta andare a bussare. Quella di Sade e della sua omonima band. Stemperiamo quindi l’agra constatazione dell’inospitalità del proprio qui proprio ora con una bella parte di basso al servizio di un ottimo pezzo.

C’è anche il solo di basso!!! Si rischia di notare il bassista…
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(Quasi)