I bassisti vengono da Mercurio

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Abbiamo poco tempo quindi al diavolo i convenevoli. Per non apparire in modo così conclamato il solito cialtrone approssimativo, ho colto l’occasione al volo e mi sono registrato su JSTOR, dove mi si promettevano cento articoli in lettura gratis, non so più se al mese, all’anno o a vita. Sì, perché stavolta non ci sono scappatoie, devo parlare di generi, disparità di genere, archetipi e proiezioni che danno luogo a concentrazioni controintuitive che si perpetuano in base a schemi in primo luogo emulativi, e per parlare di ‘sta roba conviene, almeno un po’, avere a portata di mano qualche riferimento un po’ più fresco di quelli di quando si studiava l’ambito dei gender studies dal punto di vista storico, più di cinque lustri fa. E anche, sì, perché a qualcuno, nel board di QUASI, è scappata la mano sul pulsante nucleare del tema maschi/femmine e ora tocca decidere se stare dentro alla conflagrazione potenziale o fare proprio finta di niente.

Visto che non ho trovato niente di sfacciatamente ignorante (nel senso di «volontariamente renitente a considerare la cosa») come argomento terzo, accetto di farmi portare a largo dalla riptide rappresentata da questo ginepraio, questo campo minato in cui comunque una verità di base domina: la prevaricazione inveterata del maschile sul femminile.

Ora, precisazione doverosa per i maschietti (ma per tutti, dai): non è che in ragione di tanto tossico storico abuso, come maschi, si debba pagare pegno rendendosi zerbini della prima femmina con cui si intersecano i pozzi gravitazionali, un po’ come non avrebbe un gran senso andare a scusarsi per il colonialismo o le guerre a cazzo del ventesimo e ventunesimo secolo facendosi picchiare a morte da parenti e discendenti delle vittime. Anche se penso che Nicolas Winding Refn intendesse una cosa del genere nel finale di Valhalla Rising (sempre meglio del taglio alcuni-di-noi-sono-buoni-sta che si rintraccia in Mission).

The Ending Of Valhalla Rising Explained
Sbarcare per chiedere scusa in anticipo…

Dal punto di vista della parità di genere nel contesto di come gira il mondo, il quadro di sintesi ce l’hanno spiegato in musica due che erano stati anche una coppia, Annie Lennox e David Stewart:

Some of them want to use you / Some of them want to get used by you

Some of them want to abuse you / Some of them want to be abused

Adesso che abbiamo fatto pace con le n istanze (con n speriamo tendente a 0) di femmine della nostra storia personale alle quali abbiamo inanemente versato un tributo di zerbinaggine in nome della disparità patita da altre (e in ragione della nostra irresolutezza – perché mancava il modello alternativo al «delinquente», che, come diceva il mio prof di filosofia di terza liceo, è l’archetipo dell’uomo agognato dalle donne, ma anche perché mancavano un po’ di cojones per dire e agire la verità) e ci siamo resi conto che la voglia di sopruso nei rapporti tra singoli prescinde abbastanza dal genere, torniamo al taglio sociologico che è più corretto tenere.

In altre parole, prescindiamo dalle nostre brutte esperienze – non frega niente a nessuno, tra l’altro – e concentriamoci su fatti che abbracciano uno spettro più ampio.

In origine, agli albori di questa rubrica, anche se non ricordo bene quando, ebbi modo di citare la significativa rappresentanza femminile nella categoria dei bassisti. In effetti viene abbastanza facile come constatazione – si potrebbe partire anche dal negativo: provate a nominarmi tre band famose composte di soli maschi con l’eccezione di una chitarrista femmina. Non arrivate a una, immagino. Io almeno resto a zero.

Tutte femmine? Ok, si va dal patinone finto-grezzo delle Runaways di Lita Ford e Joan Jett, alle L7, alle Hole e a tutto un mondo di epigone successive, però alla fine non è che la varietà di nomi risonanti sia così alta. Ma gruppi consolidati con lead guitarist donne proprio non me ne vengono proprio in mente.

Invece, se facciamo la ricerca in positivo, guardando alle bassiste, ce ne sono tante. Non così tante da diventare una maggioranza assoluta, quello no, il gender gap sia nello star system che nella plebe musicale è fortissimo (anche considerando il pop più popposo), però si fanno notare, sia come elementi portanti di gruppi affermati che come sessionist. Usando la mia freschissima registrazione a JSTOR riesco ad accedere a un paper del 1999, dal titolo When Women Play the Bass: Instrument Specialization and Gender Interpretation in Alternative Rock Music, di Mary Ann Clawson, pubblicato su Gender and Society, al quale provo a chiedere uno sguardo un po’ più rispettabile sul tema. Più rispettabile di: oh, raga, ma perché cazzo la femmina deve sempre essere la bassista?

Che, a esser sinceri, l’abbiamo pensato tutti – e se non lo si pensava si era dalla parte di quelli che ritengono naturale che nella band il posto della donna sia il basso perché somiglia alla cucina, a rassettare la casa e a far mestieri di scarsa attrattiva e nessuna mascolinità. L’autrice raccoglie un quadro di dati, fatti, opinioni e punta a diverse sfumature e interpretazioni per il pattern di frequenza in eccesso di bassiste ben evidente nel modo dell’alt rock.

Ma intanto va detto: ragazzi, se non è cambiata zero la cosa! Anche vent’anni dopo, nel gruppetto di turno lanciato sulla ribalta, la femmina è sempre una sola e fa la bassista.

Tornando alle interpretazioni, i due argomenti principali (ve n’è un terzo che arriva dopo) sarebbero:

  • Il basso è più facile
  • Il basso è più femminile

In entrambi abita in modo evidente l’insidia di affermare, neanche troppo implicitamente, un po’ di cose. Vengono suggeriti innuendos del tipo: se è più facile una femmina ce la può fare e quindi portiamocela una femmina nel gruppo, ci si fa notare (e grazie al cazzo, chioserei io, tanto il basso non si sente, mi ci metti la femmina per uscire dal purgatorio dell’indifferenza con una figura prima che con dei suoni…). Oppure: è più facile ma dà anche meno soddisfazione, noi maschi si suona la chitarra e la batteria, o si canta, quella roba lasciamola a qualcun altro (non sempre femmine, ovviamente, a volte chi scrive, visto che ai tempi del liceo la proposta di fare un gruppo in realtà era abbiamo deciso di fare un gruppo ed è rimasto vacante il posto del bassista).

A volte c’è la cantante ma è un processo randomico e disaggregato – più spesso è la band che la trova, non è lei che la forma. Se si sente forte a sufficienza fa la solista e gli strumentisti arriveranno.

Storicamente c’è un fenomeno, quello che dice che per le donne ci sono più spazi in termini di occupazione nelle aree che i maschi disertano maggiormente. Gli ostracizzati entrano seguendo percorsi di minore resistenza, non potrebbe essere altrimenti. Ecco quindi dimostrato, se mai fosse servito, ordine geometrico, che il bassista maschio non se lo inculavano già i suoi colleghi di gruppo. Se il genere del bassista diventa femminile è un plus, tanto il basso si continua a non sentire molto (anche se è suonato molto bene) ma è arrivato qualcuno che può svolgere un ruolo decorativo ulteriore, spesso, non sempre, in contraltare alla mascolinità del lead singer. Esempi in ordine sparso, visti da uno con una soglia di attenzione molto anni ’90: Melissa Auf der Maur, Paz Lenchantin, D’Arcy Wretzky, Kim Gordon, ecc. ecc. Tutte brave ed estremamente presentable.

Very presentable indeed

Della femminilità del basso si può discutere, pesa una media di quattro chili di legno, metallo e elettronica e ha, comunemente, una scala da 34 pollici (86,36 centimetri), aspetto che avvantaggia un po’ chi ha le mani più grandi. Se volessimo guardare alla rispondenza ergonomica le chitarre vengono da Venere, i bassi da Marte, ergo… Invece no, i maschi rompono le palle con questa ansia apollinea da chitarristi e occupano quello spazio con amplificazioni smodate (giusto qualche sera fa parlavo con un amico chitarrista del cattivo costume di tanti suoi colleghi di presentarsi in sala prove con ampli valvolare e cassa da quattro coni, una roba che se il bassista non ha un almeno cinquecento Watt non ne esce senza le vesciche ai polpastrelli, per quanto deve pestare per sentirsi anche solo lui stesso), assoli infiniti, una sensibilità ritmica discutibile o peggio, una tendenza a non leggere uno spartito manco per sbaglio. A quel punto a fare da trait d’union tra batteria e strumenti melodici/armonici del gruppo ci vuole qualcuno che abbia la diligenza di occupare solo gli spazi che restano e lo spirito di sacrificio di fungere da segnale chiaro di dove siamo nella struttura del pezzo, di dove iniziano le battute, con quali fondamentali sotto, e allo stesso tempo la pazienza di sentirsi dire che si è sbagliato da parte di quegli arruffoni di chitarrista e cantante. Qualcuno che fa da materasso, o rifà il letto, mentre gli altri ci saltano sopra. [Da notare che io stesso ho evocato un parallelo non dissimile un bel po’ di numeri fa, citando La Filanda]

A questo punto emerge il terzo argomento, quello poc’anzi rimandato: il sospetto che questo trend, ormai invalso, vada a configurare una situazione di divisione del lavoro in base al genere. Un po’ uno scacco matto, perché, se da un lato si può celebrare, correttamente, una maggiore presenza femminile, dall’altro siamo ancora alla sensazione della novelty, al livello delle paramitologie primeve – del tipo «le donne hanno un migliore senso del ritmo», ruolo, in pratica da «magic negro», come dice Spike Lee – e al confinamento settoriale, vero e proprio apartheid delle competenze. La questione non sarà più rilevante solo quando la distribuzione di frequenza di maschi e femmine nella musica sarà più o meno in linea con quella della popolazione generale. A quel punto tutto il bias sarà stato diluito a morte nel solvente della normalità. Nel frattempo però assistiamo, come in altri campi della società, a normalizzazioni presuntive, sancite in base a presupposti che sembrano presi in prestito da Una Poltrona per Due.

Niggerniggerniggerniggerniggernigger! Sopprimere le parole (o usarne solo alcune) = no buono

Nelle scuole di musica le femmine si concentrano nelle classi di canto e pianoforte, in quelle di chitarra le trovi più se parliamo di chitarra classica o acustica, quando ne arriva una a batteria è una sensazione – mentre invece qualche bassista donna non fa notizia. Siamo messi così, non è che esiste un «caso» bassiste, gli è che ci sono troppi maschi un po’ dappertutto e detti maschi poi notano, con un compiacimento in parte malevolo, la presenza delle bassiste, figure che, appunto, occupano, con sollievo dei primi, una zona che tendenzialmente non considerano «contestabile».

Voglio dire, non è che immagino un mondo della musica con quote rosa imposte, i fatti culturali sono difficili e pericolosi a pilotarsi e l’identità di genere e le preferenze associate non fanno eccezione. Però, ecco, volevo dire che fare tanto i meravigliati accondiscendenti perché ci sono le bassiste non vi rende dei progressisti. Se fosse una cucina il bassista non sarebbe lo chef, ve lo garantisco – è quando iniziano a occupare quei posti lì che vi brucia davvero.

Nel frattempo, maschi e femmine, se studiamo e il basso lo suoniamo un po’ meglio, invece di considerarlo «facile», quello è un bene in assoluto, per tutti. Sid Vicious non è il role model. Lo è il povero Lemmy che tentò, invano, di insegnargli qualcosa.

Ovviamente, tutto questo non smette di esistere nel solo mondo musicale, no, no. Questi dettami li ho riscontrati un po’ dappertutto, da quando ho lavorato nel magazzino di spedizioni fino a ruoli più recenti, la caratterizzazione degli ambiti su base sessuale è sempre stata fortissima. Colloquio in azienda di moda? Tutte donne (anche l’amministratore delegato, per fortuna, a quel punto). Manager responsabili di progetto? Quasi sempre uomini. Eccezioni? Se sì, donne destinate a ambiti tipo risorse umane, organizzazione, comunicazione, cose più da femmine insomma. Team a prevalenza femminile? Sì, accade ma è perché si forniscono servizi di governance, parola vaghissima e imperante che evoca comunque, anche quando non si vuole, il concetto di governante. Si tengono in ordine le cose per qualcuno. E chi è più adatto per questo?

Deve essere difficilissimo emanciparsi come donna senza finire a giocare a «fare il maschio più del maschio», tanto più che i modelli di riferimento sono storicamente tossici anche per i maschi stessi. Nel senso, se guardiamo agli arrivati di questa epoca abbiamo davanti ragazzoni troppo cresciuti che si fanno dispetti sgomitandosi nella corsa a chi arriva per primo in orbita. Tutti maschi. Se restiamo a casa nostra, le donne occupano meno del trenta percento dei ruoli manageriali, cosa che di per sé non vuol dire essere un chissà che, ma solo avere una responsabilità di gestione conclamata. A monte di tutto abbiamo un tasso di occupazione nella fascia di età tra i 20 e i 64 anni pari al 72,6% per gli uomini e al 52,7% per le donne.

Personalmente, un aumento della popolazione attiva femminile lo vedo solo come un bene, non fosse altro che per il fatto che potrebbe scardinare un equilibrio che alla fine si dà per consolidato. Non sempre, non dappertutto, ma comunque siamo sempre condizionati da questa sovra-rappresentazione della popolazione maschile in certi contesti. Le quote rosa non sono misura risolutiva e potrebbero anche generare fenomeni di selezione avversa, però scuotere un po’ l’albero non è cosa cattiva. Perché c’è tanta gente che ragiona in termini quasi da rendita di posizione – e non è mai un bene perché conduce a fancazzismi clamorosi, disparità di trattamento e anemia falciforme per la meritocrazia (ammesso che abbia senso una parola e un concetto del genere, ma ci siamo capiti).

Mi auguro che i conti tra i generi possano essere bilanciati, visto che non possono essere pareggiati o saldati, e mi auguro che non ci voglia troppo tempo perché il prossimo problema sul carnet di ballo che ci ritroviamo in mano come società occidentali è di quelli velenosi ed è prettamente demografico. Con l’erosione della base della piramide demografica, e con i livelli di efficienza e produttività scoraggianti che esprimiamo, gli equilibri previdenziali andranno a ramengo direttamente e senza passare dal via – e nel frattempo ci sono aziende che puntano sull’abbassamento dell’età media… – e dovremo tutti lavorare, a occhio e croce, fino ai settanta e forse oltre.

A quel punto, che siamo maschio, femmina, o che preferiamo non identificarci in nessuno dei due, avremo comunque un problema colossale ed essenziale. Saremo tutti vecchi manager e coordineremo risorse più giovani, con un rapporto di 5:2? Oppure saremo tutti vecchi impiegati demansionati, tolti da percorsi di carriera troppo affollati? O ancora, saremo tutti riccamente espulsi in un bellissimo shitshow macroeconomico regressivo che ci renderà, collettivamente, il Messico di qualcun altro? Vada come vada, ognuno proverà a salvarsi per conto proprio, come abbiamo sempre fatto, ma almeno avremo stemperato l’intrinsecamente odiosa abitudine a sminuire qualcuno in base al genere e qualche spiraglio in più per riuscire a riflettere e ragionare insieme potrebbe anche venire fuori, invece di pensare (bassista inclusa) a come far spogliare un po’ di più la bassista. Cosa che va anche bene, perché non dispiacciono le bassiste carine e vestite come vogliono, però non possiamo ancora stare discutendo solo di questo.

E, niente, mi sa che il tema del mese mi ha fregato e sono rimasto su uno spazio un po’ più ristretto del solito… Andrà meglio la prossima volta, dai.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)