Nelle scarpe del Duca

Boris Battaglia | Crocevia di libertà |

«Musa di nessuno come sei
Che non sai di niente ma di te
Che mi guardi e io non capirò»

Afterhours, Musa di nessuno, traccia n.9 dell’album I milanesi ammazzano il sabato, 2008

Se è vero, come sostengono i genetisti, che gli italiani non esistono, ma che siamo un agglomerato geografico e culturale formato dalle più disparate identità genetiche, allora figurati i milanesi.
Milano è una città in continua mutazione, costantemente riprogettata e ridisegnata. Questa, che per alcuni nostalgici di un passato fisso e mai realmente esistito, non è una cosa positiva, è invece la vera salvezza del capoluogo lombardo (che la rende unica tra le città della regione) e la fortuna dei suoi abitanti.
Questa continua mutazione urbana comporta che le abitudini (spacciate dai reazionari con il nome di “tradizioni”) dei milanesi siano perennemente rinegoziate e reinterpretate a seconda delle necessità imposte dal tipo di mutamento in corso.
A differenza, per esempio, di città come Roma o Napoli, ogni periodo storico che ha inciso sull’organizzazione sociale e topografica di Milano, ha comportato necessariamente anche il cambiamento antropologico dei suoi abitanti. In questo senso Milano, te lo dico dall’inizio di questa traversata, è un trafficato crocevia. E i milanesi non esistono. Non sono mai esistiti.

A differenza di tutte le altre città d’Italia, per diventare milanesi basta venirci ad abitare.
Pensa, anche così di sfuggita, ai grandi personaggi che hanno fatto la storia della città, ai grandi esempi di milanesità: non ce n’è uno che abbia qui le sue radici.
Sant’Ambrogio era un crucco di Treviri, Agostino era algerino, Carlo Borromeo un piemontese, gli Sforza romagnoli, e i Visconti venivano dal lago Maggiore. Il buon Beccaria era originario delle langhe e il padre di Alessandro Manzoni era sceso a Milano dalla Valsassina. Carlo Emilio Gadda era mezzo brianzolo e mezzo ungherese e la famiglia di Enzo Jannacci era originaria della Puglia. E te la finisco qui, perché comunque se ti metti a cercare non ne trovi uno di milanese.
I milanesi arrivano tutti da altri posti.

Figurati che, quello che è stato il miglior interprete della città nella seconda metà degli anni Sessanta, la Milano bandita di cui stiamo per seguire le tracce, era nato a Kiev, nel 1911 e aveva italianizzato il suo nome ucraino, Volodymir Dzorzo Scerbanenko, in Giorgio Scerbanenco.
Non l’ho tirato in ballo a caso quello che per me è il Conrad in lingua italiana. Se siamo qui, davanti a via Fatebenefratelli all’11, dove ci eravamo lasciati l’altra volta, è per incontrare un suo personaggio. Anzi. IL suo personaggio. Duca Lamberti.

Il capolavoro di Scerbanenco, non ho dubbi al proposito, è I milanesi ammazzano al sabato, quarto e ultimo romanzo del ciclo dedicato a Duca Lamberti, il medico radiato per aver praticato un’eutanasia e diventato un detective in forza alla polizia milanese, tanto da avere un suo ufficio presso la questura. Quello è il capolavoro, ma tutta la saga (Venere Privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro e quello di cui stiamo parlando, se ancora non l’hai fatto, leggili!) ha un’importanza fondamentale nella costruzione dell’immaginario di questa città. Perché quella che Scerbanenco ha operato con questi suoi ultimi quattro romanzi, è un cambio di paradigma rivoluzionario nell’economia della narrazione della città su se stessa.
La caratteristica principale della malavita milanese, almeno a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale, fu quella di nutrire il proprio immaginario di un romanticismo romanzesco che mitizzava il passato di generazione in generazione, andando a pescare le proprie origini nella ligera (quella del Verziere e della Vetra, ti ricordi che ci siamo passati dal Verziere, prima di arrivare qua?) di fine Ottocento. Quello di rivoluzionario che fa Scerbanenco, con la sua prosa crudissima, è togliere alla criminalità milanese quell’aura poetica di cui si era rivestita. La spoglia delle proprie origini mitologiche e di ogni retorica autoindulgente e ce la racconta così com’è.
Bene. In questa seconda parte della nostra camminata per le strade milanesi, in cui scopriremo il “volto oscuro e criminale” di questa città/crocevia, seguiremo i passi proprio di Duca Lamberti. Se pazienti un attimo lo vedremo uscire dalla Questura.

Siamo a poco più di un terzo di I milanesi ammazzano al sabato, la storia immagino tu la conosca bene. No? Davvero? Vabbè, nell’incertezza che tu stia scherzano o meno, te la riassumo per sommi capi.
Amanzio (antico nome lombardo) Berzaghi, ex camionista che nella sua giovinezza si faceva Milano-Kiev senza battere ciglio, e che ora lavora nell’amministrazione della ditta di trasporti a cui ha dedicato la vita, si rivolge alla polizia dopo che sua figlia Donatella, affetta da elefantiasi e da ritardo mentale, è sparita da casa. La polizia, come suo solito, gioca allo scaricabarile, fino a quando il caso capita a Duca Lamberti, che decide di andare a fondo. Dopo pochi giorni, Donatella verrà ritrovata assassinata e carbonizzata. Per vie diverse Lamberti e Berzaghi arrivano a scoprire la verità su quella torbida storia di rapimento, prostituzione e sfruttamento. La vendetta del Berzaghi arriverà una manciata di minuti prima dell’intervento di Lamberti.

Adesso riprendiamo il filo. Siamo a un terzo del romanzo, e Lamberti esce dalla questura, dove lo stavamo aspettando. Ha appena finito di interrogare duramente Salvatore Carasanto, un adescatore di ragazze da avviare alla prostituzione, al quale ha estorto preziose informazioni per l’indagine che sta conducendo sull’omicidio della giovane Donatella Berzaghi. Sono le tre di una tiepida notte d’ottobre, probabilmente è il 1968 (Scerbanenco muore nell’ottobre del 1969, l’anno in cui esce I milanesi uccidono al sabato, quindi se nel romanzo è ottobre, deve per forza essere l’anno prima), manca più di un anno perché Pinelli cada dalla finestra di Calabresi.
Per smaltire lo schifo della giornata, Lamberti decide di andare a piedi fino a casa. Abita in piazza Leonardo da Vinci. È un bel pezzo di strada e ci mette mezzora. Probabilmente camminava bello spedito. Noi andremo molto più piano e faremo un sacco di tappe. Perché, sull’asse viario che porta dalla Questura al Politecnico, di storie da raccontarti ce n’è davvero tante. Non so che scarpe portasse Lamberti, e mi sta sostanzialmente sul cazzo il fatto che l’unico sbirro letterario di cui conosco le scarpe che porta, sia un romano trapiantato ad Aosta. Allora, mi piace far finta che fossero un paio di Clark’s (solo perché difficilmente ho infilato i miei piedi in altre scarpe), ma adesso bando alle ciance, facciamo finta di essere in quelle sue scarpe (come cantava Boris Vian, le scarpe che fanno più strada sono le scarpe degli sbirri) e camminiamo con lui fino al 10 di Piazza Leonardo da Vinci.
Ne vedremo di cose interessanti.

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(Quasi)