Cerebus vol. 16: “The Last Day” (aprile 2003 – marzo 2004)

Omar Martini | La corsa dell’oritteropo |

E siamo arrivati all’atto finale del volume conclusivo. C’è uno stacco temporale fortissimo rispetto a quello che era avvenuto nell’ultimo numero di Latter days (un episodio che, con la sua panoramica su una serie di oggetti, sembra quasi ricreare il finale del film I soliti sospetti), che permette a Dave Sim di arrivare agevolmente al crepuscolo dell’esistenza di Cerebus e al suo ultimo giorno raccontato in dodici numeri (per essere più precisi, dieci numeri perché i primi due, che formano un albo doppio, raccontano con vignette fitte di testo, la creazione del mondo, continuando così a mostrare l’interesse di Dave Sim per gli studi biblici, che aveva trovato il proprio culmine nella lunghissima sequenza scritta del volume precedente, in cui l’oritteropo spiegava al personaggio con le fattezze di Woody Allen la sua libera interpretazione dei testi sacri).
È un volume fondamentalmente freddo, distante e cerebrale che, come il libro precedente, serve a mettere l’autore in cattedra e a pontificare sul mondo che sta andando sempre più alla deriva, con le sue deviazioni morali (pedofilia), religiose (l’Islam) e scientifiche (la clonazione e la genetica). Cerebus è rinchiuso nella propria “torre d’avorio” nel senso più letterale del termine, e attende la visita improvvisa di un figlio che non vede da anni e per il quale è disposto, pur di incontrarlo ancora un’ultima volta, ad accettare i compromessi più estremi. Narrativamente, c’è una costante iterazione di pochi elementi che si ripetono in modo stanco (le condizioni fisiche di Cerebus che si muove a malapena, con forti dolori; le visite di un assistente che non si vede mai ma con cui parla attraverso la porta e con cui tratta le condizioni per poter incontrare il figlio, di cui conserva un ricordo idilliaco: la preparazione di quello che gli dirà e di come gli si vuole presentare, per cercare di nascondere la propria fatica e debolezza) e non si prova pietà o interesse per un personaggio che, di fatto, è diventato il megafono delle idee del suo autore. L’empatia scatta “leggermente” solo nella parte finale, nel dialogo con il figlio e i suoi deliranti piani per “cambiare il mondo” ma, soprattutto, quando Cerebus muore, cadendo accidentalmente. Il suo spirito rivede, in maniera canonica, il proprio passato e poi si trasforma nel personaggio a fumetti rappresentato nel volume precedente, Rabbi: illuminato dalla luce dell’aldilà, salutato dalla Trinità rappresentata da Rick, Jaka (probabilmente) e Bear e da tutti i personaggi del suo passato, si lancia per unirsi a loro (o forse per combatterli?), ma dopo qualche istante viene preso da un timore reverenziale e, invocando l’aiuto di Dio, viene risucchiato nella luce, dove scompare per sempre. È forse la sequenza più efficace del libro e uno dei momenti più riusciti, probabilmente da molto tempo. Non è banalmente il personaggio di fronte alla morte che si spaventa perché deve abbandonare la propria vita, ma è l’espressione di un orrore soprannaturale, che va oltre la dimensione umana e tocca quella dello spirito, come se non ci fosse davvero speranza: non è il nulla dei non credenti che considerano la morte come l’ultimo passo di un’esistenza che non avrà seguito, ma è la paura di colui che, dopo aver sempre sperato in una seconda vita ultraterrena, si spaventa per quello che eternamente lo attenderà dopo.
Un finale criptico, probabilmente con la possibilità di svariate letture che però, pur nella sua “oscurità”, riesce a essere efficace perché, dopo centinaia di pagine di “nozioni” impartite dal moralizzatore Sim, fa trapelare del sentimento nel personaggio principale che torna, anche solo per un istante, vivo. Nel suo essere imperfetto e non chiaro, la conclusione riesce a essere degna di una serie che, con tutti i suoi difetti, si può considerare tra le storie che più hanno influenzato il medium fumetto e ne hanno mostrato le sue incomparabili qualità.

A livello di disegno e di composizione, c’è uno strano equilibrio: pur essendo ambientato quasi esclusivamente in un’unica stanza, a parte qualche rara panoramica all’esterno per mostrare il palazzo assediato in cui risiede l’oritteropo e l’umanità allo sbando che lo “assedia” con cartelli e tatuaggi, non indulge eccessivamente in dilatazioni e ripetizioni, come sarebbe stato naturale aspettarsi. Tutto viene gestito in maniera abbastanza “dinamica” e Gerhard affianca per l’ultima volta i disegni di Sim, dandogli tridimensionalità e spessore con tratteggi infiniti che creano in maniera magistrale le zone di luce e di ombra. La parola, tramite i balloon e la deformazione grafica, che tanto ha caratterizzato questa serie, ha un peso quasi eguale a quello del disegno. Sono i dialoghi, o meglio, la forma delle parole che caratterizzano il testo e lo rendono importante, quasi più di quello che viene effettivamente detto. In queste 200 pagine Cerebus non fa altro che lamentarsi, stare attento a come si muove e a quello che, fisicamente, fa e a quello che dovrà dire al figlio Shep Shep. Il lettore che è riuscito ad arrivare fino a qui (cosa decisamente non semplice, considerata la personale [re]interpretazione della Bibbia e della Torah che ha dovuto subire precedentemente), ha difficoltà a identificarsi e a entrare in sintonia con questo “guscio vuoto”, che vaneggia di religione e intrighi politici, e assiste annoiato alla vicenda che si dipana. Al di là degli acciacchi che vengono riprodotti con stelline e urletti, ci troviamo a un ulteriore stadio nel degrado fisico del personaggio. Se nel volume precedente, la decadenza era rappresentata da un aumento del peso e della massa del personaggio, qui Cerebus ha la pelle cadente, un pannolone e i pantaloni che continuano a cadere. Ma è nella conclusione che riesce a ritrovare (anche graficamente) quell’energia che da un po’ era intermittente. Con la morte di Cerebus, non solo c’è un montaggio per riprodurre il passato del personaggio che, sebbene semplice, riesce a essere ritmato ed efficace, ma è nella sua conclusione orrorifica che trova il suo momento più alto: i segni si cancellano gradualmente nella luce abbacinante che tocca tutti e tutto e ogni cosa scompare, fino a rimanere solo il vuoto della pagina bianca.

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