Quel minimo di amore e di cura: Quattro chiacchiere con Tillie Walden

Arabella Strange | Rorschach |

In occasione dell’uscita italiana del primo volume della trilogia di  Clementine, la ragazzina del videogioco omonimo, spinoff di The Walking Dead, Saldapress, l’editore italiano, organizza una tavola rotonda con l’autrice, Tillie Walden, con un po’ di rappresentanti delle pubblicazioni di critica e informazione del fumetto in italia.
Prima del panel, in qualità di cronista d’assalto di QUASI, leggo tutto quello che trovo di Walden in biblioteca:
Su un raggio di sole; Mi stai ascoltando?; La solitudine dello spazio; e Trottole. Quest’ultimo, soprattutto, mi incanta. Le ha fatto vincere il suo primo premio Eisner nel 2017, quando aveva 21 anni. La faccia nel riquadro dello schermo è identica a quella disegnata nel fumetto. Dolce, ancora delicatamente infantile, luminosa, con i capelli biondi che sfiorano le spalle. Se mi è difficile immaginarla in uno di quei leotard assurdi da competizione di pattinaggio artistico, non fatico a credere che abbia gareggiato per anni , è concentrata, è padrona della tecnica, ha fatto sua la storia e ne sta proseguendo la narrazione in modo originale: da Austin, Texas, Tillie Walden, classe 1996.

Domanda: Leggendo Clementine sembra che tu abbia voluto riprendere uno dei tuoi temi preferiti, quello del viaggio. È stato un modo per rendere personale il materiale di partenza, che veniva dal lavoro di altri?

Tillie Walden: Credo che non sarei capace di fare un libro in cui non ci sia qualcuno che viaggia, esplora, ricostruisce qualcosa. Ho scritto di gente che esplora lo spazio. Qui si parla di esplorare una società che cerca faticosamente di ricostruirsi dalle proprie rovine. E come potrebbe muoversi su questo scenario un’adolescente queer e disabile? Conoscere il gioco era imprescindibile, tre graphic novel sono un impegno grosso e anche se conoscevo già la saga di The Walking Dead, attraverso i fumetti e la serie tv, ho deciso comunque di partire dal gioco, che per me è un po’ la “storia delle origini” di Clementine.

D: Un aspetto difficile da gestire sarà stato quello della libertà di scelta del giocatore, che crea molte trame possibili, a fronte della inevitabile linearità della trama che hai scelto tu.

TW: Ovviamente non c’era modo di replicare la possibilità di scelta del gioco in un libro. Immagino che non tutti i fan siano d’accordo con il modo in cui ho sviluppato il graphic novel perché, come ha detto bene uno di loro, io sono l’unica che gioca il gioco, Credo però che il fumetto sia una opportunità magnifica di sviluppare qualcosa che all’interno del gioco è nato. Intendo dire che il videogame è brutale. Anche il mio libro è brutale, ma il gioco è veramente terrificante: è un ripetersi incessante di perdita, violenza e trauma per Clementine. Nei videogiochi, ma anche nei libri, è molto facile creare un personaggio femminile badass, fighissimo, che riesce a gestire qualunque cosa le capiti. Mentre la mia sensazione, alla fine del gioco, era che Clementine, che sicuramente ha un carattere forte, fosse sull’orlo di un crollo nervoso. Perché chiunque abbia passato tutto quello che ha passato lei deve soffrire di una sindrome da stress post traumatico spaventosa. Una crisi che nessun terapeuta sarebbe in grado di gestire! Io volevo davvero prendere atto di quella brutalità, di quell’orrore per cui l’unica cosa sensata per Clementine era sempre stata scappare. Rispetto al gioco quel che cambia è che Clementine diventa più grande e, crescendo, tutto diventa un po’ più facile da una parte e più complicato dall’altra. Affrontare i ricordi diventa un processo più complesso e più sfumato: è arrivato per lei il momento di rendersi contro che se è sopravvissuta fin lì probabilmente andrà avanti a vivere per un po’. Ma come vuole andare avanti a vivere? Quindi una delle tematiche del libro è questa novità, che Clementine deve affrontare la possibilità di avere davanti a sé una vita lunga, e questa prospettiva per lei è terrificante, perché se la vita è quella che ha affrontato fino a adesso che ha 16 anni che cosa l’aspetterà ancora? E sì, nella serie voglio affrontare proprio questa grandissima domanda: che differenza c’è tra sopravvivere e vivere? E specificamente per Clementine, che cosa vuol dire essere una adulta quando il tuo passato è una infanzia terrificante? Ed ecco che mi rendo conto che forse sto sollevando più domande di quelle a cui sto rispondendo!

D: La grafica di questa tua Clementine mescola, come è una tua caratteristica, aspetti reali ad aspetti onirici. La griglia delle vignette sembra un po’ cambiata, meno classica. Sembra che tu ti sia divertita di più anche con la composizione. Ci sono vignette con forme affilate di triangoli, altre sembrano morse dagli zombie…

TW: Sono andata a una scuola di Comics nel Vermont e per molto tempo – direi almeno per i primi sei libri – ho disegnato seguendo le regole dell’arte che avevo guardato e studiato. Poi mi sono stufata e ho deciso di cercare di migliorare: non è che il mio lavoro non fosse buono, ma vorrei diventare veramente brava. Così quando è arrivata Clementine, grazie al concept così diverso, zombie e bianco e nero, ho messo in discussione tutto quello che sapevo. All’inizio di ogni pagina, mi domandavo «E adesso? Cosa faccio? Cosa posso fare per sentirmi un po’ a disagio, fuori dalla mia comfort zone?» Mi sono divertita tantissimo, e siccome voglio continuare a crescere adesso che sto lavorando alvolume 2 mi dedico a questo esercizio in modo ancora più determinato.

D: E per quanto riguarda la sceneggiatura?

TW: Tutti i libri che ho fatto prima di Clementine, li ho fatti in modo molto simile. Cioè mi sedevo e cominciavo a disegnare. Quando avevo finito passavo tutto all’editor che naturalmente faceva un sacco di modifiche, perché il libro non era stato pianificato. Con Clementine è stato diverso, questo libro ha messo in evidenza una debolezza fondamentale del mio lavoro: i sentimenti, le emozioni che mi guidavano erano spesso una toppa che nascondeva un’assenza di trama. Lavorando a Clementine forse per il tono e lo stile della narrazione di The Walking Dead, fatti di azione continua ed escalation drammatiche, ho dovuto cambiare approccio. Non mi sono spinta fino a fare una sceneggiatura, ma ho preso degli appunti. Ho capito cosa vuol dire rendere lo scopo di una scena e le motivazioni dei personaggi molto più evidenti. Sono diventata una scrittrice molto più forte. E questo  approccio nel secondo volume è ancora più istintivo. Credo che tutto il lavoro che farò dopo Clementine sarà plasmato dal modo in cui sto lavorando a questa serie: non mi interessa tornare a essere la fumettista che ero, mi interessa evolvere.

D: Tornando a The Walking Dead: è un universo davvero ampio, composto da moltissimi fumetti, una lunga serie tv, dei videogiochi…

TW: Quando è uscito il fumetto io avevo sette anni. E ho guardato la serie tv mentre facevo prima le medie e poi le superiori. Insomma, non ricordo quasi un tempo in cui non ci fosse The Walking Dead. A mio padre piaceva, teneva i fumetti nascosti nel suo ufficio perché io non avrei dovuto leggerli, in teoria. Ma io li leggevo lo stesso anche se gli zombie mi facevano parecchio schifo. Adesso gli zombie cominciano a piacermi, li considero parte della natura, come gli animali. Per cominciare questo lavoro ho dovuto cancellare tutto quello che sapevo dei Walking Dead, ho anche smesso di leggere tutta la letteratura post apocalittica che consumo di solito. Mi sono dedicata a cose noiose che non c’entrassero niente con il tema dell’apocalisse zombie, per non avere influenze, perché se mi fai vedere l’immagine di un castello io di colpo voglio fare un libro sui castelli! Quindi ho cercato di chiedermi: come sarei se avessi 16 anni, se avessi perso una gamba in modo orribile, vivessi in un mondo devastato, non mi fossi mai innamorata, non avessi i genitori? Mi sono concentrata sui dettagli, per un po’ ho ignorato anche l’idea degli zombie. Mi ero appena trasferita, avevo attraversato gli States per andare a vivere con la mia ragazza che adesso è mia moglie, quindi credo che un sacco di emozioni legate al fatto di essermi innamorata di mia moglie e di essermi sistemata con lei in un altro posto abbiano influenzato la serie.
Quando mi hanno chiesto di occuparmi della serie di Clementine ho pensato che avessero sbagliato persona! Cosa c’entravo io con una storia di zombie? Ma quando mi hanno proposto di rendere la serie The Walking Dead interessante per un teenager queer ho pensato: questo posso farlo! E ora sono la prima donna in assoluto che scrive The Walking Dead, sono felice di aver potuto far entrare una voce femminile in questo franchise e penso che anche i teenager queer abbiano diritto di dire la loro su come reagire a una apocalisse zombie.

D: C’è un dialogo a un certo punto in cui i teenager si dicono: «Se solo ci fosse un adulto ad aiutarci!» Quanto questo scenario di persone giovani, sopravvissuti di seconda generazione, in un mondo distrutto dagli adulti che li hanno preceduti, rispecchia la realtà dei ragazzi di oggi, naufraghi in un mondo distrutto da qualcun altro, che vorrebbero tanto essere aiutati da una persona grande?

TW: Non solo prendo molto sul serio il fatto di scrivere per lettori giovani, ma adoro scrivere per loro. Quando penso ai ragazzini di Clementine in un mondo senza adulti, senza nessuna guida, la prima cosa che mi viene in mente è quanto gli adulti strutturino il loro tempo. Senza adulti, senza struttura sociale, credo che i teenager si annoierebbero tantissimo! Non saprebbero come passare il tempo. Li ho disegnati mentre leggono un libro, volevo che fosse Twilight ma tecnicamente nel 2003 non era ancora uscito quindi ho scelto Le parole che non ti ho detto. Questi ragazzi non vanno a scuola, devono educarsi con i brandelli che restano loro del mondo. Si può davvero fare un parallelo con questa generazione di ragazzi nati dopo il 2000: per loro è ovvio che gli adulti hanno incasinato le cose. Cambiamento climatico, insicurezza abitativa. insicurezza finanziaria… Quel che è diverso nel mondo di The Walking Dead è che, per quanto questi ragazzi possano desiderarlo, non ci sarà mai un adulto che prepari loro la cena. Quel minimo di amore e di cura i ragazzi e le ragazze dell’universo di The Walking Dead devono darselo a vicenda, devono essere genitori gli uni per gli altri. Questa è la loro tragedia…

D: Nonostante i tuoi fumetti affrontino argomenti importanti, è ancora molto difficile farli entrare nelle scuole.

TW: Sì, è ancora difficile convincere gli insegnanti. Figuriamoci, qui negli States, in Florida, uno dei miei libri è stato addirittura bandito. Non so nemmeno bene perché, forse perché ci sono dei contenuti queer. C’è ancora un sacco di gente che pensa che i fumetti siano per i bambini, che non siano letteratura. Addirittura, qui da me, ci sono persone che pensano che siano opera del diavolo. Soprattutto se hanno contenuti queer. La questione quindi non è di poco conto. Io faccio questo esempio, agli insegnanti: portiamo i ragazzi in gita al museo a guardare quadri, poi gli facciamo leggere poesia e poi gli facciamo leggere opere di narrativa. Be’ i fumetti sono letteralmente la fusione di tutte e tre queste cose, sono prosa, poesia e arti figurative. Cerco anche di spiegare che magari, per molto tempo, i fumetti sono stati davvero pensati per i ragazzini, ma adesso le cose sono cambiate. Chiedo loro di farmi qualche esempio di fumetto e loro mi dicono Garfield o Superman, insomma i comics che si compravano al Drugstore per pochi centesimi e allora io dico loro che negli anni Novanta è uscito Maus, un graphic novel che parla dell’Olocausto, che non è proprio un soggetto leggero. Dico che adesso ci sono graphic memoir che parlano di genocidio, malattia mentale, suicidio, sessualità, identità, ansia… Non c’è un solo argomento importante che non sia stato in qualche modo affrontato dal fumetto. E c’è il vantaggio ulteriore che, se ti trovi di fronte a un lettore riluttante, i fumetti sono il modo perfetto per fargli sentire che la lettura è accessibile. Comunque credo che il modo migliore per convincere un insegnante, o chiunque, sia dargli in mano un fumetto. Ho sperimentato che questo cambia la prospettiva delle persone: cominciano a vedere che non è che il disegno renda facile la lettura quanto piuttosto che il disegno aggiunge una sfumatura, un livello alla lettura, che diventa un’esperienza completamente diversa. Fumetti e graphic novel hanno un modo speciale di connettersi al lettore e credo che una delle ragioni sia che ti puoi soffermare sul singolo momento. Ricordo che quando ero piccola e vedevo un film e, per esempio, due ragazze si baciavano, io restavo lì a bocca aperta ma il momento passava immediatamente e il film proseguiva. Quello che è straordinario dei fumetti è che invece puoi andare avanti e tornare indietro tutte le volte che vuoi. In ultimo, i ragazzi oggi si nutrono di moltissime immagini – basta pensare, che so, a Instagram – quindi tutto quello che possiamo fare per facilitare un approccio all’immagine con una maggior capacità di analisi è importante.

D: Quanto c’è di Tillie in Clementine?

TW: Ah be’… Per cominciare ho collocato geograficamente il libro a dieci minuti circa da dove vivo! A volte rifletto sul fatto che il modo in cui Clementine pensa è molto simile a quello in cui io penso. È molto ostinata e io sono molto ostinata, tende a risolvere i problemi arrangiandosi e io pure, ma i due elementi della storia in cui veramente mi rispecchio sono che Clementine è ebrea e io sono ebrea, siamo entrambe ebree sefardite, e che sono una gemella Olivia e Giorgia. Poi ci sono i nomi, mi sono sposata durante la pandemia mentre lavoravo al volume 1 e ho usato i nomi delle sorelle di mia moglie per le gemelle, Tim è il nome di suo fratello, Rica invece è un nome ricorrente nella mia famiglia. Insomma ho usato molti nomi di persone realmente esistenti. L’unico nome che non penso userò mai è il nome di mia moglie, Emma, perché nessuno è come lei!

D: Un’ultima domanda: se dovessi scrivere un’altra storia spin off da The Walking Dead, quale personaggio sceglieresti?

TW: Carl, o Daryl. Daryl ha una motocicletta e io non so disegnare le motociclette. Quando scelgo un progetto nuovo cerco sempre di disegnare qualcosa che non sono capace di disegnare quindi, visto che non sapevo disegnare gli zombie ma adesso che ho fatto Clementine ho imparato, se dovessi fare un libro nuovo su TWD vorrei imparare a disegnare una motocicletta! Ma onestamente credo che dopo il terzo volume di Clementine sarò molto contenta di scrivere una storia che non contenga zombie.

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