Esco di casa che è già buio. L’aria è umida e mia sorella non arriva. Mentre la pioggerella diventa pioggia e mi inzuppa il collo della giacca e i capelli mi guardo intorno e penso a un libro. C’è un bambino che vuole vedere cosa succede quando fa buio, così il papà invece di andare a dormire lo porta in giro. Il papà ha super sonno e vuole dimostrargli, trascinandolo per le strade vuote e sotto i palazzi silenziosi che non succede niente, di notte. Il bambino ha gli occhi grandi e spalancati, e vede: Mickey Mouse rosso che vola, un gorilla con l’orologio, un coniglio bianco in un vaso coperto di equazioni, un cane bassotto gigante che è anche un ponte, un pesce che ha comprato una fragola e tante altre cose fantastiche, fantastiche! Che quando compare Alice che salta attraverso un cerchio tenuto dal Bianconiglio io non mi meraviglio neanche più. Il bambino e il papà rincasano, il papà finalmente si siede su un lettino tutto piccolo e storto, non si accorge che il bambino adesso ha gli occhi ancor più spalancati, bianchi e splendenti come la luna, e sorride incredulo: era tutto meglio di quello che aveva immaginato.
Questa storia l’ha inventata e disegnata Wolf Erlbruch, che è morto l’11 dicembre dell’anno appena finito. Morto, andato, scomparso. Se penso ai suoi libri mi piace dire che è scomparso, perché magari fa una magia e torna. Dentro La notte credo ci sia tutta la poetica di Erlbruch, in grani effervescenti. Se li sciogli in un bicchiere vengono fuori tutti gli altri libri. È un libro incantevole. È un libro misterioso. È un libro che ride, e ti prende anche un po’ in giro. Proviamo a sciogliere un granello e salta fuori Chi me l’ha fatta in testa?, la storia della piccola talpa con gli occhiali – Erlbruch le ha dato la sua faccia – che uscendo da suo buco si trova una cacca gigante sulla testa. Per tutta la durata del libro si aggirerà indomita per i campi e i cortili della fattoria cercando di scoprire il colpevole, e imparerà come fanno la cacca gli animali, un libro utilissimo e naturalistico, un libro che fa ridere tantissimo tutte le generazioni di bambini a cui l’ho letto, e riletto, e riletto. E non è solo la questione della cacca, che, diciamolo, fa ridere sempre: il fascino della storia è legato anche alle dimensioni dei protagonisti. La talpa è piccina picciò, e gli animali sono spesso molto più grandi, ma lei è impavida: «Sei tu che me l’hai fatta in testa?»
Il bambino si aggira per una città notturna, incantata e surreale, la talpa con una grande cacca sulla testolina si aggira nella campagna tedesca. Entrambi sono motivati, vagabondi e pronti alla meraviglia.
E se Erlbruch è la talpa, e il bambino è la talpa, il bambino è Erlbruch. Che disegna, dipinge, ritaglia, incolla, e si meraviglia. Si meraviglia.
Arriva mia sorella, dice di avermi detto un orario, io ne ho capito un altro, amen. Amen fino in fondo, perché andiamo in chiesa. Una chiesa grande grande, fredda, umida, la chiesa dove hanno battezzato mio padre, e dove stasera si celebra una messa nel primo anniversario della sua morte.
Mio padre è morto, se ne è andato. Era sempre in giro. Ha rallentato un po’ compiuti i novant’anni, ma è facilissimo immaginare che anche adesso sia semplicemente andato a trovare i suoi amici.
Se non che i suoi amici sono qui, nel banco dietro il nostro. Ci sorridiamo, poi il prete comincia il suo rito e io mi distraggo.
Erlbruch ha fatto moltissimo libri, alcuni come illustratore, altri anche come scrittore. Tra quelli scritti da altri che ha illustrato io ne amo due, in particolare. Il primo è quasi metafisico, la storia è di Oren Lavie, ebreo di Tel Aviv, songwriter, scrittore e regista. Oren ha immaginato un orso che sente un prurito fortissimo, e si gratta, si gratta, ma il prurito è talmente forte da diventare un altro orso! Un orso che non c’era, prima! E Wolf Erlbruch, dio santo!, disegna L’orso che non c’era, dal manto bruno, sempre dritto sulle zampe posteriori, in una posizione un po’ insaccata tranne quando si concede di fare una corsetta, o di ballare, e lo disegna sullo sfondo delle piante ed erbe più sontuose, filigranate, minuziose, colorate del mondo. Apre l’erbario del paradiso e dissemina le sue creature verdi azzurre rosa su tutta la pagina, per quant’è grande. L’immagine sembra uscire da una matrice, come se fosse una carta da parati arborea, ma l’effetto è di vita, freschezza, profumo e fruscio. L’orso che non dovrebbe esserci, su quello sfondo, dentro quello sfondo, c’è più di te e più di me.
Il secondo libro l’ha fatto con Dolf Verroen, uno scrittore olandese di libri per bambini. È Un paradiso per il piccolo orso, e racconta la storia di un piccolo orso che perde il nonno – eccolo lì, lo perde? Dove? Quando gli dicono che il nonno è in paradiso, il piccolo orso comincia a cercare di raggiungerlo. Incontra altri animali a cui chiede di aiutarlo ad andare in paradiso, e io mi perdo a ricordare, seduta sulla panca dura, mentre a intervalli insensati mi alzo e mi risiedo insieme alla decina scarsa di persone presenti, le forme degli animali. C’è la volpe, il mio animale magico, che si rifiuta di mangiarlo, e di farlo andare in paradiso, perché da solo non le piace, vorrebbe anche un po’ di pollo. La volpe è rossa, e ha splendidi occhi a mandorla, e ride. Nella pagina successiva c’è una tigre lunghiiiissiiiima, che non lo mangia perché ha già mangiato. E l’ape non lo punge, e il coccodrillo non vuole mangiargli le zampe. E ce n’è sempre una. È un mondo capovolto in cui, nonostante l’evidenza della morte, è impossibile morire. E c’è il gufo, agghiacciante, indossa un abitino gessato, con gli occhi vuoti, gli propone: «“Perché vuoi andare in paradiso? (…) Guardati intorno: la terra è meravigliosa!” Non era vero.»
Non era vero. Come si fa a scrivere così in un libro per bambini? E nella tavola a destra un orsetto si trascina, sembra anche un po’ un grosso topo, con un tocco di elefantino, è grigio come la mica bagnata, esausto, la pioggia graffia l’aria, e siamo solo a metà libro. Ma alla fine, nelle ultime due pagine, il libro ti raccoglie e ti bacia sulla fronte, la carta ha il chiarore della vaniglia e la famiglia degli orsi, ricongiunta, è celeste pallido, come le cuffiette dei bimbi, come il cielo della domenica la mattina presto. Gli orsi si preparano al letargo e dell’orsetto, che lungo il suo cammino occupava la pagina con la sua figurina delicata e un po’ traballante, ora vediamo solo una testolina minuscola, ricondotta alle sue proporzioni di testa bambina, gli occhi due minuscole mezzelune, il nasino nero, mamma e papà sono grandi e rotondi, disegnati con pochi tratti perfetti, ritagliati e incollati in quel nulla di cielo e nuvole. Hanno anche loro il colore delle nuvole, perché «Ecco, era questo il paradiso degli orsi sulla terra!»
Mi sono dimenticata di alzarmi a non so quale preghiera, un lontano cugino di mio padre mi dà dei colpetti secchi sulla nuca, mi viene da ridere, penso a mio padre ma non lo trovo, la chiesa è agghiacciante, marmo, oro, le preghiere per me vuote, era più chiesa l’ospedale, lui con la maschera dell’ossigeno, abbattuto dalla morfina, io che piangevo perché lo stavo perdonando contro la mia volontà, in una piena di compassione che aveva i colori e i suoni dell’arcobaleno, esistono davvero momenti così?
Il mio libro preferito di Wolf Erlbruch, scritto e illustrato da lui, è L’anatra, la morte e il tulipano. L’ho scoperto preparando l’ esame sugli albi illustrati alla scuola per bibliotecari. La mia tesina era intitolata Le bambine e i mostri, e il professore mi ha dato la lode perché «anche l’anatra è una bambina».
L’anatra si fa i fatti suoi, è la quintessenza di un’anatra, il collo, il sederotto, il becco, in ogni tavola è leggermente diversa, e ugualmente perfetta. Mentre si fa i fatti suoi arriva la Morte. È uno scheletro col testone e indossa un abitino scozzese. In una mano ha un tulipano rosso scuro.
L’anatra si spaventa, ma poi, pian piano, lei e la Morte fanno amicizia. C’è un’illustrazione bellissima in cui stanno insieme su un albero, le loro teste sbucano dal fogliame, come se avessero costruito insieme una casa sull’albero. La natura si stende come una morbida coperta, un nastro di seta, attraverso le loro vicende. Ti viene da respirare piano, dolcemente. L’anatra vuole sapere come sarà la sua morte, e la Morte la rassicura. Ogni pagina è incantevole. Quando l’anatra, un giorno, sentirà freddo, e si distenderà per non svegliarsi più, la Morte sembrerà quasi sorpresa, e dispiaciuta. E la porterà al fiume, che scorre allagando le pagine, la depositerà sulla corrente tranquilla e potente e la lascerà andare. E questo è quello che possiamo fare anche noi, l’unica cosa, anche noi, se ci riusciamo.
Poi sul sagrato si parla, qualcuno ricorda aneddoti in cui mio padre diceva qualcosa di intelligente e ironico, per lo più in dialetto, lingua che parlava solo con i suoi amici, a casa parlava l’italiano assoluto, diceva giunsi, seppi. Occupava moltissimo spazio. Come me. A differenza di me, non chiedeva scusa.
E penso all’ultimo dei miei libri di Erlbruch, La grande domanda. La grande domanda non viene mai formulata, ci sono solo risposte, tutte diverse. Per esempio il gatto dice che «Sei venuto al mondo per fare le fusa. E anche un po’ per via dei topi». L’uccellino, che è mio amico, dice «Per cantare la tua canzone». Le risposte sono tutte interessanti, anche quella del soldato che crede di essere qui per obbedire, ma se guardi bene vedi che il corpo è disegnato tutto sproporzionato con una gamba lunghissima che serve solo a marciare e la divisa è ritagliata da una mappa come quelle dei catasti, piena zeppa di indicazioni, un abito in cui è impossibile essere liberi. La mamma ha la sua risposta, «Sei qui perché ti voglio bene», e la curva della sua spalla, che regge la testina della bimba, è talmente perfetta da farti venire gli occhi umidi. Saranno dieci righe di matita blu, ed ecco una mamma col suo piccolo, una perfetta madonna col bambino.
Anche la mia mamma è morta l’anno scorso, venti giorni prima di mio padre. Lei è quella mamma ritagliata da carta leggermente più marroncina della pagina bianca. Wolf ha visto che gli era venuta proprio bene, e l’ha incollata.
Dopo la mamma ci sono delle pagine bianche per trovare, crescendo – così dice il libro – altre risposte alla Grande Domanda.
Dico a mia sorella: «Quest’anno sono venuta per lui; l’anno prossimo al limite vengo per te».
Lei mi guarda con gli occhi spalancati, c’è un attimo di silenzio, poi scoppio a ridere.
«Ma no, intendo, vengo per fare un piacere a te!»
Ci allontaniamo sotto la pioggia, verso la macchina.
P.S. Ho scritto ascoltando in loop questo pezzo di The National, Start a war. Magari vuoi farlo anche tu.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.