Il protocollo Freyja

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

Per puro caso il pezzo numero quarantaquattro di questa rubrica si trova a dover trattare di gatti. Posto che la storica canzoncina dello Zecchino d’Oro del ’68 non ci dice niente di utile (o vero) sui gatti (col cavolo che marciano in quadrato) e che la predecessora (raro, ma si può usare dice il dizionario Treccani) Maramao Perché sei Morto? usava i gatti solo come coro funebre e anche un po’ indifferente, una cosa che non si può non rilevare è quanto ampio sia il divario tra il livello di incorporazione di queste bestiole nel vissuto quotidiano e la qualità della nostra conoscenza in materia di personalità, abitudini e bisogni delle medesime. Un vero baratro di luoghi comuni, approssimazioni becere e occasioni perdute.

Non ho avuto modo di rileggere, in preparazione a questo pezzo, il libro di John Bradshaw Cat Sense, uscito nel 2013, al quale vi rimando per una esposizione competente di una serie di argomenti. Però so’ quasi trecento pagine e quindi qui ve la cavate in molto meno tempo, anche se la fonte è assai meno autorevole – e ricevete anche una serie di spunti del tipo date retta a zio, che non viene dalla montagna der sapone (anche se il luogo storico che ispira la locuzione romanesca non è lontano da qui – ma non ci viene, al limite ci è arrivato, alla montagna der sapone, in uno dei suoi troppi e ormai classici percorsi à contre-courant).

I gatti sembrano aver conquistato Internet e, come argomento, essersi posizionati secondi dietro il porno in termini di preferenze del pubblico. L’accostamento tra i due temi è sicuramente incidentale ma credo che possiamo accomunarli proprio per un aspetto: la mancanza acuta e cronica allo stesso tempo, di realismo e l’allineamento estremamente rigido con stereotipi inflessibili. I «gattini carini» del tema di questo mese sono, a volte, proprio questo, una generalizzazione banalizzante e una presa di distanza dalla realtà effettiva e tangibile dell’oggetto vivente (quindi un soggetto) del quale stiamo trattando. Hello Kitty ne è un esempio, per intenderci e per usarne uno ante litteram rispetto all’era del web.

E allora partiamo a sfalciare un po’ di sciocchezze o vere e proprie falsità sui gatti, grazie anche a ormai quasi venticinque anni di esperienza di vita in comune, mettendo insieme, all’impronta, una piccola guida alla convivenza felina da bassisti da salotto.

«Ho trovato un gatto/gattino e gli ho dato del latte». La via dell’inferno è pavimentata coi sanpietrini delle buone intenzioni e tu sei un coglione benintenzionato. I gatti, anche se in misura variabile, non digeriscono bene il latte (adorano la panna e il burro e la componente grassa dei latticini in generale), al punto da poter avere reazioni avverse come la diarrea, evenienza che può rivelarsi fatale per un gatto magari malnutrito e deidratato che state pensando di soccorrere. I cartoni animati Looney Tunes con le ciotole di latte servite al gatto sono solo una delle tante minchiate sparse in giro dagli ammeregani nell’ultimo secolo. Non fate niente del genere. Anzi, in prima battuta non fate niente: a volte i cuccioli di gatti forastici o randagi vagano un po’ mentre la madre è a caccia. Prima di decidere di stare «salvando» un gattino bisogna aspettare. Eccezioni: non so, lo dice il buon senso – mettiamo che siamo sulla scarpata di una tangenziale o in un posto dove qualche fava lascia il cane libero. A quel punto vi accollate il piccoletto e iniziate a fare solo cose ragionevoli, tra le quali: cercare di capire l’età (da questo dipende anche una stima sullo stato di svezzamento e sulla capacità di termoregolazione dell’animale) e lo stato generale di salute. Occhietti appiccosi e crostosi, muco nasale, scarsa reattività o addirittura letargia sono indicazioni non evitabili per passare direttamente dal veterinario prima di tornare a casa. Se non avete esperienza, studiate, e trovatevi fonti affidabili per farlo.

The Milky Waif (Short 1946) - IMDb
No.

«Non mi vuole bene». Potreste volere un cane, con incluso il rapporto affettivo che immaginate possa esserci (con un cane). Con un gatto non funziona allo stesso modo, prima ci fate pace e prima vi ricavate l’opportunità di dare avvio a una esperienza diversa e un po’ inattesa. Con i gatti non tutti i momenti sono buoni per effusioni e scambi di apprezzamenti. Se non è il momento, non è il momento, punto. Il gatto, per quanto la visione moderna, figlia di una temperie vittoriana col palo nel culo, lo associ alla dimensione femminile, materna, domestica e focolaresca, contrapponendolo al cane (ma non quelli da divano, tipo i Cavalier King Charles o i maltesi o i barboncini) compagno fedele del maschio, cacciatore in primo luogo ma anche guardiano e pastore, appunto non è in alcun modo associato ad alcun criterio di utilità, a parte quello storicamente noto e probabilmente fondamentale per la sua auto-domesticazione di cacciatore di topi e ratti. Ma queste corrispondenze di genere non sono state mai particolarmente specifiche, quanto, piuttosto, dettate dalla logistica del vivere familiare. A casa ci stava la donna, quindi è logico che sia anche la referente del gatto. Se aggiungiamo che, almeno per quanto possiamo vedere da un punto di vista etologico, le società feline si organizzano secondo modelli matriarcali, l’associazione veniva ancora più facile. E però, così come la società umana dava per scontata la donna, in questa scontatezza ci finiva, con tutte e quattro le zampe, anche il gatto. Però nel medioevo cristiano andava molto peggio, quindi vediamolo come un percorso di progresso, va’. Comunque, tornando al tema dell’affettività: a un gatto non dici «vieni qui» per mettere alla prova quel mix di lealtà un po’ servile e amore incondizionato che ti aspetti da un cane. Cioè, glielo puoi anche dire, ma quello che ottieni non è detto che sia la testimonianza perfettamente decifrabile di qualcosa. Insomma, se non sei pronto ad affrontare un certo livello di imponderabilità e, soprattutto, ad accettare una cosa molto semplice, cioè di dover aspettare, il rapporto non fa per te. Hai bisogno di prevedibilità, di garanzia totale. Prenditi un golden retriever che ti renderà felice ma non sarei sempre necessariamente sicuro di un tale automatismo con i canidi. Anche tra di loro ci sono caratteri e personalità più «felini» e quindi non è detto. Col gatto devi capire quando è un buon momento e per cosa, soprattutto. Inoltre, l’espressione dell’affettività cambia in modo rilevantissimo non solo da individuo a individuo ma anche con l’età e l’esperienza del gatto.

Facendo qualche ulteriore precisazione sull’emotività e sull’espressione dei sentimenti: ci sono molti segnali apparentemente flebili che invece hanno una importanza capitale nello scambio di informazioni con il gatto. Esempio: lo slow blink, una strizzatina di occhi, completa ed eseguita lentamente, dovrebbe rappresentare la comunicazione di un compiacimento profondo e di un senso di sicurezza che gli stai infondendo. D’altro canto un gatto è un predatore sì, ma intermedio, lui stesso rischia di essere preda ed è, costitutivamente, un fascio di nervi, sempre sul chi vive. Lo slow blink è quindi un momento di relax che si prende per dirti che è contento e, chissà, la cosa potrebbe anche avere a che fare con te.

Study Confirms 'Slow Blinks' Really Do Work to Communicate With Your Cat :  ScienceAlert
Se gli fai lo slow blink, potrebbe rifartelo. Life goals!

E ancora, scapocciamenti e strofinamenti, talvolta eseguiti in modalità rampante e quei morsi accennati ma neanche poco, sono tutte manifestazioni affettuose, anche se spesso sono legate al cibo e quindi viene facile formulare il prossimo luogo comune.

«Mi vuole bene». Spesso è l’umano a deciderlo, non che non sia vero, ma l’umano lo intende secondo il suo schema culturale e non è detto che sia la chiave interpretativa più fedele. Lasciare spazio al dubbio è il modo migliore per cercare di avvicinarsi. Personalmente mi comporto come farei con una razza aliena senziente.

«Sono solo interessati al cibo». Qui intervengono tanti aspetti distorsivi, quasi razzisti. Tutti gli animali sono food-motivated, lo siamo anche noi, solo che non ce ne rendiamo conto e trasferiamo quel tipo di istanza su altri livelli di bisogno (facendo così anche dei casini inenarrabili). Il cane lo è ma nessuno dice «sta con me solo per il cibo». Sarà che lo porti al guinzaglio, sarà che quello ti ricorda in continuazione la sua dipendenza (anche se a volte non lo fa, ma non te ne rendi conto, e il capobranco diventa lui), ma ai cani non si ascrive mai questa fredda grettezza. L’argomento quindi è del tutto privo di sostanza e se la smettete di fare i fighi e gli date da mangiare, facendo attenzione alle dosi perché, anche se spesso va così, non tutti i gatti sono bravi a limitarsi nelle quantità di cibo che assumono, a quel punto ci sarà tempo e spazio per sperimentare il resto delle vostre relazioni. Se li frequentate solo per dare loro da mangiare sarà evidente che il tema che vi lega parrà essere solo il cibo. Non ci vuole Kant per farsi una teoria di base sull’argomento. Il cibo è una questione scottante ma i gatti sono parecchio meglio degli umani: se il cibo è sufficiente e non si sentono minacciati da possibili penurie, non si fanno problemi ad accogliere nuovi arrivati. Come dice mia moglie: provate voi a vedervi mettere in casa uno che non conoscete, del quale vi dicono «questo è tuo fratello, amatevi», senza preoccuparvi che possa togliervi spazio e risorse.

«Sono indipendenti». E allora? Come se fosse un problema. Proviamo a falsificare l’affermazione: sono dipendenti. Si ritorna al paradigma presunto del cane: se dipendi da me ti controllo e non ti vivo come un pericolo, se invece mi dimostri che non passi tutto il tempo a dipendere da me ti prendo in antipatia. Personalmente non uso cartine di tornasole troppe grezze per farmi un’idea delle persone ma se dovessi usarne una, penso ricorrerei a questa: quando qualcuno mi dice che non apprezza l’indipendenza dei gatti, metto la freccia e svolto su un’altra strada perché sento puzza di ansia di controllo. Naturalmente il test non è immediatamente valido in direzione opposta: se mi dici che apprezzi l’indipendenza dei gatti non mi stai dicendo niente di significativo. Anzi, forse mi preoccupo anche in quel caso. L’indipendenza felina è un concetto abborracciato, semplicistico. Non è semplice da dimostrare (non lo dico solo io) ma concetti di attaccamento e di ansia da separazione sembrano essere ben presenti anche nei gatti. Nella mia esperienza posso solo notare come, quando siamo fuori, è facile che troviamo almeno uno dei gatti ad attenderci in salotto. Dopo un po’ compaiono anche gli altri e, non necessariamente dopo un pasto, subito dopo ripartono verso altre occupazioni. Come se fossero un po’ preoccupati quando non ci siamo e si tranquillizzassero nel rivederci, solo senza sottolinearlo troppo. In ogni caso, gli piace passare buona parte del tempo per conto loro a fare quello che gli piace (spesso: dormire sodo in un dato posto, variabile a seconda dei mesi o anni o stagioni o chissà cos’altro). Esattamente quello che fareste anche voi, se solo aveste il coraggio di vivere meno impastoiati nelle maglie della rete di responsabilità che forse, almeno in parte, non volevate prendervi. E vi tenete in casa questi piccoletti denigrandone lo schietto esercizio di libertà quotidiana, dipingendoli come approfittatori. Certo, le capacità manipolatorie non gli mancano ma si tratta anche di saper tenere una posizione (tipo: ti ho già dato da mangiare, se ne riparla più tardi) o, in ultima analisi, di accettare un male minore (il gatto ti fa a fette il divano e non c’è modo di farlo smettere). Ah, dimenticavo: indipendenza, qualsiasi sia l’accezione che volete dare al termine, non corrisponde a solitudine, i gatti stanno quasi sempre meglio in coppia, specie se possono crescere tra fratelli o più o meno coetanei. Gatti anziani, soprattutto femmine, sono meno inclini ad apprezzare convivenze feline ma non è una regola e dipende anche e soprattutto dal livello di socializzazione (con umani e cospefici) e dalla relativa educazione sentimentale che hanno maturato.

A volte, magari dopo anni, li trovi così.

Con i gatti, con il rapporto che abbiamo maturato nella società occidentale contemporanea, realizziamo uno scenario che somiglia a quello che invece evitiamo accuratamente di concretizzare nel consesso della società umana: concentrarci sul valore della vita qui e adesso, via dalla specie, via dalla progenie, via dal futuro, riconoscendo in modo aperto chi e cosa vogliamo e chi e cosa non vogliamo. Certo, noi forziamo sui nostri amici felini questo modello, anche per buone ragioni pratiche (la prolificità delle gatte è portentosa, perfetta per difendere la specie, però a prezzo di tanti morti infanti e giovani), ma, alla fine dei conti, con la sterilizzazione, la liberazione dall’obbligo del lavoro (la caccia) e della sofferenza (eutanasia), il quadro d’insieme che abilitiamo può essere ragionevolmente (o anche no, chissenefrega) a confronto con i dettami che sembrano guidare il nostro esistere. E hai voglia a provare ad argomentare, ma non è che il caso per la difesa della specie (o della «vita») appaia così robusto rispetto al valore prospettico di una buona vita per l’individuo che sei e per gli individui che frequenti o che, ancora più eclatante, l’idea di una vita ulteriore, oltremondana a venire, possa apparire come una guida più sensata, rispetto al fare con la seria dignità della naturalezza quello che scopriamo di poter fare. Dico scopriamo perché, sempre pensando al gatto, questo non è che va in crisi nel momento in cui «scopre» che non ha bisogno di fare quello per cui pareva progettato, per sopravvivere. Il gatto rimane gatto, sarebbe stupido alludere a un percorso etologico paragonabile a quello umano, passato attraverso livelli di complessità sociale e tecnologica incommensurabili nel confronto, però l’aspetto rilevante è che può riorientare la sua identità, sia istintuale che caratteriale, verso nuovi obiettivi con facilità. L’adattabilità dei gatti può talvolta apparire impressionante. Vi faccio un esempio: da meno di un anno il nostro giardino ha una recinzione modificata per impedire ai gatti di uscire (tutti tranne uno, che non ne vuole sapere di essere contenuto e ha trovato un modo tutto suo di uscire e rientrare, non replicato dagli altri – sperando che non lo facciano in futuro) e, prima di dare avvio ai lavori, ci chiedevamo se i nostri gatti avrebbero sofferto per la riduzione di territorio che ne sarebbe derivata. La decisione nasceva da troppi problemi, di salute in primo luogo, derivati dal loro grado di libertà e dalle spesso estremamente onerose conseguenze, pratiche ed emotive. Abbiamo quindi proceduto e, con nostra grande sorpresa, pur restando interessati a quel che può avvenire oltre il giardino, i nostri tre residenti, una gatta anziana di età imprecisata e due giovani di tre e un anno, sembrato aver apprezzato la novità. L’ipotesi è che abbiano interiorizzato che non devono più andare di pattuglia a sorvegliare i confini del territorio, cosa che immagino si sentissero in dovere di fare (era lavoro anche questo, forse), essendo animaletti abbastanza ansiosi e preoccupati da potenziali invasioni nel loro territorio. I gatti tendono a incontrarsi con i loro vicini in zone di confine dove fanno a capisse, senza scadere mai in lotte troppo sanguinose (cosa che invece non è vera per i maschi non sterilizzati durante il periodo degli amori). I nostri gatti si sono «imborghesiti» senza troppe contestazioni, giusto qualche evasione riuscita per dimostrare che avrei dovuto impegnarmi di più per rendere la recinzione credibile.

Quello che è certo, però, è che tutta questa avventura insieme non metterà capo a nessun progresso, nessuna evoluzione, se non quella personale. Non ci saranno nuove generazioni alle quali trasmettere le lezioni di una vita, al più, al massimo nuovi randagi adottati che potrebbero imparare qualcosa dai decani di famiglia. Alla fine saremo tutti finiti e le nostre esperienze non conteranno più nulla. Si tratta di abbracciare in modo

«Hanno nove vite». Ora, è un’iperbole ma non è proprio ingiustificata. I gatti hanno capacità di recupero notevoli ma anche, allo stesso tempo, soglie del dolore e di sopportazione che rendono non semplice capire quando stanno male. Sicuramente sono stoici in sommo grado ma anche incredibilmente adattabili: un randagio che abbiamo conosciuto per undici anni, e accolto negli ultimi mesi della sua vita (fino a marzo scorso), ha sopportato ferite e menomazioni incredibili, perdendo, tra l’altro, tutti e due gli occhi, riuscendo però nel frattempo ad accettare di farsi toccare e accarezzare, quando in precedenza non si riusciva ad avvicinarsi a meno di tre metri. Sempre come dice mia moglie: «immagina di essere avvicinato da un gigante alto sette volte te che ti solleva e ti tiene tra le braccia». Già questo richiede molta fiducia, anche se va ricordato che pochi gatti amano essere presi in braccio – a qualcuno piace, ad altri no. Essendo tendenzialmente beneducati e non aggressivi con i componenti del gruppo familiare, te lo fanno capire chiaramente ma in modo non violento. Potresti rimanerci male, però. Tornando alle nove vite, sono generalmente longevi e da quindici a vent’anni di vita insieme è un orizzonte mediamente credibile, ma non è che siano immuni da problemi, soprattutto se esposti a rischi all’esterno (o anche solo a cadute dal balcone) o all’imponderabile (come tutti), nella forma di malattie croniche o acute. Però reagiscono in modi impressionanti, disumani, appunto. La nostra gatta giovane l’anno scorso, di questi tempi più o meno, aveva l’aria un po’ malmostosa, niente di più, però, un giorno che ha vomitato in diverse occasioni a breve distanza l’una dall’altra, abbiamo capito che era il caso di andare di corsa alla clinica veterinaria. Morale della favola: peritonite e enorme ascesso addominale causati da un forasacco libero nell’addome. Un essere umano con la peritonite assume la classica posizione fetale e piange dal dolore ventiquattro ore su ventiquattro. La morale della storia è: se conoscete il vostro gatto e iniziate a vedere comportamenti diversi dal solito, fatevi venire dei dubbi e, se i dubbi non si fugano, scivolatelo nel trasportino e via dal veterinario. Ovviamente, non esistendo un servizio sanitario nazionale degli animali, le fatture sono spesso esose, se non astronomiche.  

Ci sono anche luoghi comuni da confermare, tipo «sono puliti». Non essendo predatori apicali, hanno interesse a non essere facilmente rilevabili, quindi puzzare è fuori discussione. Avere cattivo odore è fonte di stress per i gatti – e lo stress, più che la curiosità, è un killer per loro, come per noi del resto. Passano molto tempo a pulirsi, con ottimi risultati. L’odore del mantello del gatto è qualcosa di caldo e pelliccioso ma neutro. Una socialità ravvicinata e affettuosa con i gatti è anche sicura, specie con delle prassi antiparassitarie non troppo lassiste. Va anche detto che non è un cavolo facile prendersi una zoonosi e che la storia della toxoplasmosi è un triste spauracchio che fa abbandonare migliaia di gatti quando in casa improvvisamente c’è una donna incinta. Almeno nella nostra esperienza, fare comunella con loro non ci ha mai procurato problemi. Se ci scappa un graffio va bene disinfettarsi tempestivamente, ma senza paranoie. Certo, perdono peli a profusione, specie in certi periodi dell’anno, e sono peli che sembrano incollarsi ai tessuti ai quali aderiscono. Ma il problema ce l’avete anche col cane, specie se avete un husky o un cane con mantello doppio o triplo. Ogni tanto rivomitano un bezoario (a.k.a. palla di pelo) e ci sta, visto la lingua velcrata con cui si puliscono. Se la cosa vi impressiona, lasciate stare, però non potete non riconoscere la serietà che ci mettono nel tenersi puliti.

In ultima analisi, è verissimo anche il luogo comune che li vuole carini, lo sono quasi sempre in modo smodato e il gatto di ognuno è il più bello del mondo. Anche quando sono un po’ stenterelli o stortignaccoli o un po’ sdruciti, con qualche pezzo mancante, riescono a essere sempre estremamente dignitosi ed esteticamente impeccabili. Un gatto, anche in punto di morte, anche portando i segni evidenti di sofferenza e stress, conserva sempre un aspetto profondamente diverso da quello dell’umano nelle stesse condizioni. Un gatto in salute, guardandolo, può avere due anni come sei o quindici. Solo quando iniziano a essere veramente anziani, e non si sa mai quando accade, iniziano a mostrare qualche segno, appaiono più leggeri, il pelo magari un po’ meno setoso, ma anche questa fase può protrarsi per anni. Oltre all’indubbio vantaggio estetico, c’è anche e soprattutto che riescono a risultare oltremodo carini nel comportamento – noi, che siamo storditi, rimaniamo deliziati quando riscontriamo i segni che loro sono vivi e che, essendo vivi, esercitano scelte, manifestano preferenze e idiosincrasie, coinvolgendoci nel processo. In questo coinvolgimento accadono cose molto semplici, come contatto fisico, gioco, dormire insieme, «parlare» (alcuni gatti sono molto loquaci, anche se ognuno di loro sembra usare vocalizzi personali, come se si trattasse di un dialetto costruito in situ, all’interno della relazione), all’interno di una cornice di incertezza che credo derivi direttamente da una storia di condivisione di interessi più che di domesticazione vera propria.

L’anno scorso a dicembre. La gatta nella cuccia non stava bene e i due giovani (a volte anche la decana) le sono stati vicini finché non è stata meglio. Senza farne un caso.

Quest’ultimo aspetto penso che alimenti, ogni volta, il fascino della convivenza con un felino domestico, perché, come scrive Bradshaw, ogni gatto deve imparare a essere domestico, che sia nato in casa o da qualche parte là fuori. Difatti, guardando ai nostri gatti vedo passati più o meno ignoti (randagi adulti che abbiamo accolto nel tempo versus cuccioli di sei settimane mollati per strada), con storie di socializzazione felina e umana molto diverse, e assetti caratteriali altrettanto diversi, e per niente immutabili. Tutti abbastanza plasmabili verso un rapporto con noi umani, anche se con percorsi e risultati anche molto diversi. Ogni volta ne è venuta fuori una storia diversa, così che ogni volta che ognuno di loro viene meno, il senso di perdita è sempre acuminato e reso affilato dalla peculiarità di ciascuno di loro e del rapporto che avevamo. Cibo e sicurezza sono argomenti robusti e pratici, ma c’è anche molto di più, non posso dimostrarvelo matematicamente ma ne sono certo.

Senza nulla togliere alla «fazione canina» (ché è pure questa una contrapposizione stupida, perché se pensassi di avere le energie e le risorse necessarie per il loro benessere, un paio di cani già farebbero parte della famiglia) mi vengono in mente un paio di spunti: uno è un meme che non trovo più ma che diceva che, mentre la cat people è cordiale verso la dog people, quest’ultima tende, non si sa perché, a denigrare la prima e il secondo è un confronto tra due odi di Neruda, quella al gatto e quella al cane, con la prima assai più riuscita della seconda. Penso che sia il senso di mistero figlio di quella incertezza e indecifrabilità che orienta in modo più proficuo l’inventiva e l’estro del poeta e quel velato antagonismo della dog people, nel riconoscere l’immanenza di qualcosa di più potente e esteso e profondo e primigenio, infuso nella piccola presenza tangibile della «tigre minima da salotto».

Mi fermo qui, ci sono molti argomenti ancora che meriterebbero di essere trattati, oltre a una tonnellata di aneddoti, su felini di casa e di strada, e terabyte di foto, ma si è fatto tardi. Magari ci sarà modo in futuro.

Non è vero che non si possono addestrare i gatti…

Postilla: in mezzo a tutto il caos e al rumore e alla schiuma tossica dei social media, una cosa utile che abbiamo potuto sperimentare grazie a internet è uno sguardo sull’esperienza degli altri con i loro gatti, in una sorta di enorme esperimento globale e corale di etologia amatoriale. Non avremo risposte ma intercettiamo consonanze.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)