Ecco l’estate

Paolo Interdonato | If I Can't Dance, It's Not My Revolution |

1985, maggio: le radio iniziano a passare una canzonetta divertentissima. In poco più dei canonici tre minuti e mezzo, i Righeira raccontano una malinconia disarmante: L’estate sta finendo. Un altro anno è finito, l’età adulta è sempre più vicina, i baci sono perduti, gli ombrelloni scompaiono e le spiagge si trasformano in deserti che manco Mad Max.
Mentre sento quella canzone sono allegro. La scuola è agli sgoccioli, le carni si scoprono, si gioca, ci si stende sui prati, presto andremo tutti in vacanza. Per molti di noi, schiantati nelle città industrializzate, è la norma: si monta in auto stipate di famiglie e bagagli e si va, tutti insieme, a trovare parenti che vivono in zone di mare o montagna, oppure, i più fortunati, in appartamenti o pensioni affittati per le vacanze.
Quei «la-languidi bri-brividi» che «bruciano quando sei con me» mi accompagnano. Vengono fuori dall’autoradio di mio padre mentre ci spostiamo o dallo schermo dal quale un supertelegattone mi elargisce magnanimo le canzoni più ascoltate in quel momento.

Poi l’estate finisce veramente. E sentire quella canzone, che ormai conosco a memoria, venir fuori da un megafono in spiaggia, mentre trascino le infradito nella sabbia, al tramonto, mi produce una fitta al cuore.
Maledetti, fottuti, Righeira.

Qualche tempo dopo, in novembre 1988, esce Mlah, il primo disco de Les Negresses Vertes. Si apre con la fisarmonica di La Valse, ma ormai avevamo capito che il punk era un’attitudine e non suoni brutti, sporchi e cattivi all’insegna del Do It Yourself: poteva permettersi tutto. Perfino inneggiare alla mosca Zobi – capace di infilarsi nella bocca dei creduloni che leggono la Bibbia o di titillare le grazie di una ragazza – o ricordarci che il mare non è mica là perché lo si beva (e infatti Gesù è annegato).

È novembre. C’è freddo un po’ ovunque. La canzone successiva è un inno alla gioia. La si può ascoltare tutto l’anno. Niente malinconia. Ecco l’estate!

2023. L’estate inizia in marzo. Loro sono i Baustelle e Milano è la metafora dell’amore. Canzone beatlesiana più d’ogni altra sentita in questi mesi. E poi c’è quell’invito privo di ambiguità: «abbronzati a Nolo che cazzo te ne frega del Circeo». Canticchio la canzone ogni volta che me lo permette l’assistente vocale domestico – i cui inviti a contrarre un abbonamento capace di garantirmi «ascolti illimitati» continuo a ignorare.

L’estate per me inizia veramente solo quando mi infilo in un posto per ascoltare consapevolmente musica.
Il 9 giugno varco la soglia dell’ex ospedale psichiatrico Paolo Pini, in via Ippocrate a Milano. C’è la festa di Radio Popolare (“All you need is Pop”), una distesa di incontri ed eventi a prezzo contenutissimo. Mi muovo in mezzo al prato, bevo un paio di birre, ascolto parole e qualche canzone. Poi, alle 21:30, con una puntualità impressionante, salgono sul palco i miei musicisti estivi preferiti. E scoppia La Danse De Negresses Vertes.

Un concerto che mi fa stare bene. Non mi basta. Ne voglio ancora. Il giorno dopo torno e, dopo un tipo triste e preso male lasciato da solo con la chitarra, salgono sul palco Raiz e i Radicanto. Raiz è stato il cantante degli Almagretta negli anni in cui quello era, in assoluto, il mio gruppo preferito. Ho ascoltato i primi tre o quattro dischi degli Alma (fino a Lingo), fino a impararli a memoria. Quelli successivi con meno gioia e poi Raiz è uscito dal gruppo e D.RaD è morto. Certo gli Almamegretta hanno continuato e, a un certo punto, Raiz ha anche ricominciato a essere quello che canta dentro nei dischi.
Il progetto con i Radicanto è, di tutto quello che ha fatto Raiz dopo Lingo, la cosa che mi convince di più. Sul palco del Pini hanno presentato una scaletta di cover di Sergio Bruni. Confesso che Carmela non mi commuove. Quando però hanno sergiobrunizzato Nun te scurda’, mi sono commosso.

Dopo Raiz e i Radicanto, è salita sul palco Meg. Benché cerchi di non avere mai aspettative, per evitare le delusioni, confesso che mi aspettavo altro. Mi sono improvvisamente sentito come se fossi in mezzo a un rave party, ma senza la droga. Sono scappato al terzo pezzo. Magari migliorava e faceva anche questa.

E, a proposito di “quello che canta dentro nei dischi”, i concerti di Enzo Jannacci mi mancano da impazzire. Il 10 luglio, vicino a dove abito, c’è un omaggio alla sua musica e alle sue parole fatto da Elio. Ho pensato per un po’ di andarci. Adesso però sono dubbioso. Benché amici affidabili mi dicano che sia un gran bello spettacolo, sento che c’è qualcosa di sbagliato. Jannacci lunare, ilare e collerico, perso sul palco, che si incastrava nelle parole e nella corda della chitarra, era il portatore della bottiglia dentro cui c’erano messaggi incredibili, scritti con grafia aliena. Elio è divertente, professionale, controllato, cinico, algido e quasi anaffettivo. Ho paura che il gradiente termico tra i due potrebbe produrmi fastidio, forse addirittura dolore. Magari resto in casa e riguardo questo concerto che, purtroppo, non è estivo.

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