Esegesi di Scirocco (con poscritto)

Francesco Barilli | Il tradrittore |

1986, fine estate. È il mio primo concerto di Francesco Guccini. Ne seguiranno altri 4, ma fermiamoci a questo.
Sono a Pontenure. O, maledetta memoria, altro paese del piacentino. La scaletta ricalca più o meno quella del 1984, immortalata nel bellissimo Fra la via Emilia e il West, il live che ha celebrato i vent’anni di attività del cantautore. La novità è data dall’anticipazione di tre canzoni che appariranno nel 1987 in Signora Bovary. La title track, Culodritto (dedicata alla figlia Teresa, allora bambina) e Scirocco. Tre pezzi bellissimi di un disco bellissimo, ma questo l’avrei scoperto l’anno dopo.

Ma veniamo a Scirocco. Ti aspetti, credo, un collegamento al tema del mese. In effetti «Che vita di merda!» è quello che mi viene in mente a sentirla la prima volta, a Pontenure o dove diavolo sono. Riflessione-sfogo non del tutto calzante: la canzone si chiude con un auspicio diverso, con la speranza che la vita, agitata da un vento incantato, possa prendere pieghe differenti. Però, seguimi, io ti sto parlando della PRIMA IMPRESSIONE ricavata da Scirocco, accovacciato sul prato di un campo sportivo (o quel che era). Certe cose le avrei sapute in seguito e te le dirò nel poscritto. Non sbirciare, stai al gioco, tanto dopo ci arriviamo.
Beh, a questo punto ascoltala, poi torna qui.

Analizzare un brano è cosa abbastanza stupida. Scusa se mi autocito (pratica odiosa) ma così facendo metto la ciliegina sul mood nostalgico perché, pensa, lo scrivevo nel mio primo articolo su QUASI:

«Non so se Frank Zappa abbia mai detto davvero “Scrivere di musica è come ballare di architettura”. Gli aforismi sono un cammino infido, scivoloso e in fondo poco interessante. Comunque sia, è un po’ che quella frase se ne va in giro come una sorta di avvertimento: di musica non si scrive, la musica non la si racconta.»

La frase attribuita a Zappa non è esattamente ritagliata a questo concetto, ma possiamo adattarla, direi. Nel senso che nell’impasto-canzone ogni ingrediente è fondamentale. La musica, le parole, la voce, l’elemento affettivo che nell’ascoltatore può avere “quella voce” (come a me capita nel caso di Guccini o De André). Ancora, la modulazione che questa assume nelle diverse parti: quel «ricordi» perentorio piazzato a inizio brano; oppure il concitato «lei arrivò affrettata» che introduce la figura femminile, dipingendola con il tono prima che con le parole. Insomma, la canzone vive di vita propria, è una formula chimica in cui è un casino separare gli elementi. È raro un testo che, senza voce e melodia, possa essere da solo «racconto», o possa esserlo senza perdere forza evocativa. Scirocco sfugge alla regola. Le sue parole «stanno in piedi da sole», anche senza il supporto della melodia struggente o della voce, davvero incisiva, di Guccini.

«Ricordi, le strade erano piene di quel lucido scirocco
Che trasforma la realtà abusata e la rende irreale
Sembravano alzarsi le torri in un largo gesto barocco
E in via dei Giudei volavan velieri come in un porto canale

Tu dietro al vetro di un bar impersonale
Seduto a un tavolo da poeta francese
Con la tua solita faccia aperta ai dubbi
E un po’ di rosso routine dentro al bicchiere
Pensai di entrare per stare assieme a bere
E a chiacchierare di nubi»

Siamo a Bologna, chiaro. Cornice di tante canzoni e di tanta vita del Guccio (le Osterie fuori porta, l’Ostaria delle Dame, Via Paolo Fabbri e la vecchia signora dai fianchi un po’ molli, ecco). È una giornata già bella di suo, un vento insolito la rende migliore e dà un tocco di magia alla città.
L’autore vede, oltre il vetro di un locale, un vecchio amico seduto al tavolo del bar, intento a sorseggiare un rosso. L’uomo è già stato protagonista di una sua canzone, anche lì descritto come un poeta francese. È il Baudelaire che «fra l’assenzio cantava» in Bologna, appunto. Lo rivela Guccini introducendo la canzone, lì a Pontenure. Un’identificazione definitiva arriverà anni dopo e pure questa te la dico nel poscritto.
La scena tranquilla e l’intenzione di Guccini di entrare nel bar vengono spezzate dall’arrivo di un nuovo personaggio. E la voce si fa più energica, così come energica è l’improvvisa apparizione.

«Ma lei arrivò affrettata danzando nella rosa
Di un abito di percalle che le fasciava i fianchi
E cominciò a parlare ed ordinò qualcosa
Mentre nel cielo rinnovato correvano le nubi a branchi»

La donna è bella. Di una bellezza magnetica che rende inutile una descrizione fisica. Sono i movimenti a definirne l’eleganza, quel vestito che indossa con fierezza. Persino tu che ascolti lo capisci come se potessi vederla. Ma l’energia che sprigiona non preannuncia nulla di buono e anche il cielo sembra adattarsi, lasciando spazio a nubi minacciose. Guccini, fuori dal locale, pur non cogliendo le parole può facilmente intuire senso e tono della discussione.

«E le lacrime si aggiunsero al latte di quel tè
E le mani disegnavano sogni e certezze
Ma io sapevo come ti sentivi schiacciato
Fra lei e quell’altra che non sapevi lasciare
Tra i tuoi due figli e l’una e l’altra morale
Come sembravi inchiodato»

Non serve che Guccini spieghi ciò che è evidente dai gesti dei due amanti e anche la loro personalità ti appare chiarissima. L’uomo è incerto (lo sai dall’inizio: «la solita faccia aperta ai dubbi») e «inchiodato» fra un rapporto socialmente accettato e quello con l’amante. La donna gesticola, ancora energica e sicura, ma la sua ultima speranza è destinata a rimanere delusa.

«Lei si alzò con un gesto finale
Poi andò via senza voltarsi indietro
Mentre quel vento la riempiva
Di ricordi impossibili
Di confusione e immagini

Lui restò come chi non sa proprio cosa fare
Cercando ancora chissà quale soluzione

Ma è meglio poi un giorno solo da ricordare
Che ricadere in una nuova realtà sempre identica»

Il colloquio ha infranto ogni speranza. I due amanti tornano a mostrare i tratti distintivi delle rispettive personalità. La donna è uscita. Decisa come era entrata, e quel «senza voltarsi indietro» ti dice che il suo è davvero «un gesto finale», senza appello. L’uomo resta ancorato al suo rosso e sembra ancora arrovellarsi attorno a soluzioni impossibili.

«Ora non so davvero dove lei sia finita
Se ha partorito un figlio o come inventa le sere
Lui abita da solo e divide la vita
Fra il lavoro, versi inutili e la routine d’un bicchiere

Soffiasse davvero quel vento di scirocco
E arrivasse ogni giorno per spingerci a guardare
Dietro alla faccia abusata delle cose
Nei labirinti oscuri delle case
Dietro allo specchio segreto d’ogni viso
Dentro di noi»

Guccini non conosce il destino della donna. Gli è noto quello dell’amico, destinato al rimpianto. I versi finali si fanno enfatici, forse un pizzico retorici, nell’indicarci una speranza. La possibilità che torni quel vento magico a trasformare la realtà in qualcosa di altrettanto magico, liberando la nostra vita dai mille casini imposti (a volte auto-imposti) dalle convenzioni.

POST SCRIPTUM:

Curiosità e nostalgia sono le molle principali di questo articolo. E di molti altri, a dire il vero, ma restiamo sul pezzo.
Mentre scrivevo, collocare con precisione nello spazio e nel tempo quel mio primo concerto del Guccio è diventato un tarlo parecchio fastidioso. Tarlo sconfitto grazie a Francesco Guccini in concerto, di Claudio Sassi e Odoardo Semellini (Giunti, 2011) in cui scopro l’esattezza del mio ricordo. Il concerto è proprio a Pontenure, il 25 luglio 1986.
L’individuazione precisa dei due amanti in Scirocco è cosa più semplice. Sono numerosi i testi, cartacei o reperibili on line, che la consentono. Ma io ti risparmio la fatica.

L’uomo stretto fra un rapporto stabile (e codificato moralmente) e un amore passionale è Adriano Spatola, poeta emiliano d’adozione morto poco dopo l’uscita di Signora Bovary, il 23 novembre 1988. Anche la donna stanca di questa situazione è un’artista, Giulia Niccolai, scomparsa il 22 giugno 2021.
Se leggi le loro biografie, anche distrattamente, ti accorgerai che la loro NON è stata una «vita di merda», anzi. Solo la parentesi del loro amore ha dato vita al delicato tango di Scirocco, dove conosci due esseri umani schiantati dalle circostanze. Ma bene così: la loro vita è, appunto, «loro», cosa diversa dalla canzone che ti ho fatto conoscere o, voglio sperare, riascoltare con attenzione nuova. Del resto, te lo dicevo prima, Guccini stesso nel finale del brano spazza via l’amarezza dalla storia. Dunque pure io ti lascio con lo stesso desiderio. Che un vento di scirocco allontani la nebbia e ci mostri, di fronte a qualsiasi strada apparentemente senza uscita, ogni alternativa come possibile.

SECONDO POST SCRIPTUM:

A quel concerto a Pontenure ero in compagnia di uno dei miei più cari amici. Scrivo queste ultime righe a pochi giorni dalla sua scomparsa. Già gravemente malato e isolato in una stanza d’ospedale lo avevo raggiunto al telefono, ricordandogli l’aneddoto. L’ultima volta che l’ho sentito ridere.
Non ne farò il nome, mal sopportava la dimensione social di queste cose. Sappi che era un artista, uno dei suoi primi dipinti fu Divorava la pianura, omaggio alla Locomotiva di Guccini, tanto per chiudere il cerchio.

Mi ha lasciato detto di vivere di più e scrivere di meno. Le due cose (scrivere e vivere, dico) in me sono legate strettamente, difficile seguire completamente il suo consiglio. Ma gli ho voluto bene, farò di tutto per non deluderlo. Sono stato partecipe della bellezza e della tenerezza che ha lasciato su questo mondo, nel suo breve passaggio. Mi deve bastare.

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