Post-it: La fortuna di non essere non-morti in un mondo di non-morti

Boris Battaglia | post-it |

Sai che io, da un po’ di anni, ho un pessimo rapporto con la narrativa letteraria? Ci provo in continuazione a leggere l’ultimo capolavoro di questa o di quello, ma mi annoio dopo poche pagine. La pigna dei romanzi interrotti, quelli con cui ho cercato di avere commercio negli ultimi mesi, è lì che mi pericola davanti: mi sento un po’ un idiota ad avere buttato tutti quei soldi per cose che, lo so già prima di affrontarne l’incipit, mi romperanno il cazzo. Pensa che l’unico romanzo uscito nella prima parte di questo 2023 che, con gusto, ho finito, è Le radici del male di Maurice Dantec (un noir attualissimo – e scritto e tradotto benissimo – che ha quasi trent’anni).
Sono altri, ormai, gli ambiti in cui fruisco storie che mi appassionano: il cinema, le serie TV, i fumetti, i videogiochi (ma solo se consigliato da uno dei figli, da solo non ne capisco nulla), il teatro (questo poco, veramente poco). I libri per i quali spendo tutta la fatica necessaria per leggerli, sono solo i saggi. E pochi, molto pochi anche loro.

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Pop ポップ di Matt Alt l’ho letto quasi per caso. In parte attirato dal sottotitolo: Come la cultura giapponese ha conquistato il mondo, lo avrei lasciato in pigna con le altre decine di saggi che prima o poi leggerò perché mi torneranno utili per una qualche ricerca che avrò in ballo. Invece mi sono accorto che Vincenzo Filosa (non posso dirlo amico, ma è uno dei pochi che nel mondo del fumetto ha la mia stima) ne ha scritto la prefazione. La leggo, mi sono detto, così capisco se poi mi viene voglia di leggere tutto il libro.
Beh, me lo sono divorato.
Il concetto chiave del saggio, sviluppato – come piace a me – attraverso una serie concatenata (ma non sequenziale) di aneddoti storici e biografici, è che la cultura giapponese si è imposta nel mondo attraverso gli oggetti. Dalle automobiline ai Pokemon, passando per Hello Kitty e il walkman. Contrariamente a quanto certa divulgazione new age cerca di farci credere, la cultura giapponese è fatta di cose e soprattutto delle confezioni che le contengono.
Non so se, come sostiene Alt, la cultura giapponese abbia davvero conquistato il mondo, di certo ha influito in modo eccezionale sull’immaginario occidentale proprio in virtù di questa cosa che la caratterizza e che ce la rende vicina: il feticismo delle merci e l’ideologia del lavoro.

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Conosco molto – e cerco di metterne in atto le pratiche, appena possibile – del pensiero sviluppato contro questi due pilastri dell’ideologia capitalista. Dice: certo, sei un comunista! Ma proprio no. I comunisti hanno un’idolatria per il lavoro che non mi appartiene. Io la odio quella cosa multiforme e mutaforma che è il lavoro.
Forse sono un anarchico.
Comunque, so niente di quale sia e se c’è (mi dicono che c’è) un pensiero radicale nipponico contro il lavoro e la produzione. Però l’altro giorno, solleticato dal fatto che raccontasse di zombi, mi sono letto i primi cinque volumetti di Zombi 100, manga scritto da Haro Aso e disegnato da Kotaro Takata.
Una cazzatella che non lascerà traccia ma che mi ha divertito come un fumetto non faceva da molto tempo. Akira Tendo, ventiquattrenne schiacciato dalle maglie della produttività e sottoposto a turni di lavoro massacranti, si ritrova in mezzo a un’apocalisse zombie. La cosa non lo sgomenta nemmeno un attimo. Non dovrà più andare a lavorare e questo basta a renderlo felice. Aggiungici che non avrà mancanza di nulla, le cose che gli servono – birra, una moto per muoversi velocemente nelle strade infestate, uno schermo gigante per giocare ai videogiochi – basta andare a prendersele dove stanno. L’originalità di questo manga è nel geniale ribaltamento della prospettiva romeriana cui si sono attenute tutte le serie di zombi. Il mondo degli zombi non è il nostro al quale cercare un’alternativa più umana, il mondo degli zombi è l’unico in cui si può vivere felici (forse solo Edgar Wright aveva avuto una simile intuizione: l’hai visto Shaun of the Dead, vero?). Almeno fino a che ci saranno cose da usare.

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A proposito delle cose. Da qualche tempo sono obbligato a praticare attività da cardiofitness. Correre è già di per sé una rottura di cazzo, figurati correre sul tapis roulant. Mentre lo faccio ascolto podcast. Quello che mi piace di più è Cosa c’entra. Sai di certo che Michel Foucault voleva intitolare il suo Les mots et les choses, L’ordre des choses, ma che poi per ovvi motivi l’ha data vinta al suo editore. Ecco. Quello che fa Chiara Alessi nel suo podcast, prendendo le mosse da un fatto successo in un giorno con lo stesso numero e dello stesso mese, ma di qualunque anno, di quello in cui esce la puntata, è di mettere in correlazione due cose. Puntata per puntata la rete di relazione tra le cose di cui parla, ha assunto l’aspetto di un vero e proprio ordine costituito da quattro coordinate: latitudine, longitudine, altitudine e temporalità. Le coordinate di una mappa quadrimensionale. Quello che mi serve per muovermi felicemente, non tanto sul tapis roulant(su cui comunque corro anche per allenarmi a fuggire il più velocemente possibile dai non-morti), quanto nel mondo di zombi che auspico come il giovane Tendo.

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