Istanza di irricevibilità: Unica lettura possibile di Aaron di Ben Gijsemans

Boris Battaglia | Affatto |

Se c’è un’espressione che trovo insopportabile è quando qualcuno dice di qualcosa (sia un’opera o un’opinione) che è irricevibile. Non capisco cosa significhi. Se i tuoi sensi deputati alla ricezione degli stimoli esterni funzionano, anche la più aberrante delle idee, una volta che ti viene esposta a brutto muso, la ricevi. Poi, per carità, puoi rimandarla al mittente, con il ribrezzo o corcandolo di botte, ma prima non puoi fare a meno di riceverla. Figurati poi se si tratta di un’opera a fumetti. Nel momento stesso in cui la guardi per capire se è ricevibile o meno, la stai ricevendo.

Quindi, dopo aver letto sulla quarta di copertina del volume Aaron di Ben Gijsemans la frase volutamente paradossale di Ratigher: «Può un libro essere straziante, irricevibile e al contempo magnifico?», ho sorriso e ho pensato: cazzo dici Ratigher?
Poi mi sono messo a leggerlo.
Duecentoquattro tavole dopo, quando ho chiuso il libro, avevo cambiato idea. Questo fumetto non è magnifico, non è per niente straziante, ma è assolutamente irricevibile.

Aaron ha vent’anni e sta passando l’estate a casa dei genitori, dove intende preparare due esami. Studia, legge fumetti (vecchie storie di supereroi degli anni Cinquanta, che colleziona), va in bici, guarda video in rete, osserva un ragazzino che gioca a pallone e poi scende a giocare con lui, con pessimi risultati perché non è certo un tipo sportivo, ogni tanto beve una birra con un amico. È timido e imbarazzato dalle ragazze. Quando una ci prova con lui in modo evidente e sfacciato, le sfugge.
Insomma, una vita banale, il cui unico avvenimento di rilievo è una gita organizzata con il fratello maggiore, la sua compagna e il figlio di lei: Arian, di cui non ci viene detta l’età, ma è evidente sia un bambino nella prima età scolare. Nella casa affittata per il week-end Aaron e Arian stanno nella stessa camera. Una sera, mentre rimbocca le coperte ad Arian che si è addormentato leggendo un fumetto, ad Aaron succede una cosa: si scopre eccitato. Corre in bagno e si masturba.
Da questo momento comincia la sequenza che per Ratigher sarebbe straziante: il lento processo del protagonista nello scoprire la natura pedofila delle proprie pulsioni sessuali. Processo che adesso, ripensando a dettagli narrativi precedenti: la notizia del pedofilo arrestato, il netto rifiuto delle avance della ragazza, l’ossessione per il bambino che gioca a pallone, scopriamo retroattivo. Ma questo non ci muove emozione alcuna, nessuno strazio per lo strazio del protagonista. Totale e clinico distacco.

Sicuramente ricorderai Happines, film del 1998 di Tod Solondz. I dieci minuti finali in cui Bill Mapplewood confessa, in un campo controcampo montato magistralmente, al figlio la propria perversione pedofila, quelli sì che sono al contempo strazianti e disturbanti. Le delicate parole con cui il padre spiega al figlio la propria dolorosa impossibilità a controllare quelle pulsioni ci fa provare per lui il suo stesso strazio, ma non ci risparmia certo il disgusto per le sue azioni che, per sua stessa ammissione, potrebbero spingersi fino a violentare il proprio figlio. Alla fine di quella scena, per quanto doloroso il nostro giudizio di condanna etica su Bill è netto: quell’uomo ci fa ribrezzo.

Non è, come sostenuto da buona parte della critica, ad autori contemporanei, quali Chris Ware o Seth che Gijsemans ha guardato. Per Hubert, la sua prima opera, in cui racconta le difficoltà esistenziali di un introverso borghese di mezz’età, il fumettista belga si è evidentemente ispirato al segno di Frederick Burr Opper e alla struttura delle tavole del Buster Brown di Richard Felton Outcault. Riguardo ad Aaron, invece, il riferimento, sia per la plasticità dei personaggi che per la struttura della tavola (quattro strisce da tre vignette ciascuna in vincolata consequenzialità temporale), è stato, con ogni evidenza, George McManus.
Questa operazione quasi accademica permette a Gijsemans di costruire una struttura fredda, così architettonicamente misurata nel minimo dettaglio – nella quale Chris Ware non c’entra proprio nulla (cioè, se c’è del Ware, forse è nella recitazione inespressiva – brechtiana? – dei personaggi), non essendoci nell’impianto grafico di Aaron quella convergenza temporale che è la vera cifra di Ware – da non suscitarti emozione alcuna. Le emozioni sono relegate negli inserti dei dozzinali fumetti supereroistici che contrappuntano con precisione ritmica la narrazione. Delle specie di bridge musicali, ma adoperati al contrario che nelle canzoni. Qui invece che ad allentare la tensione, servono a suscitare una minima emozione nel lettore, che sia anche solo la noia.

In questo senso ha ragione Ratigher e il fumetto di Gijsemans è irricevibile, intendendo la sua irricevibilità come inammissibilità. È un fumetto inammissibile, che mi porta, attraverso un percorso estetico di assoluta perfezione (forse in questo senso è dà intendersi il “magnifico” ratigheriano) sul confine di una scelta etica (Aaron è un mostro o no?) senza però darmi gli strumenti per effettuarla. Non mi permette (perché me l’ha resa inammissibile) nessuna empatia per il suo travaglio, ma nemmeno mi lascia provare (anche qua ritorna l’inammissibilità di qualsiasi sentimento davanti a queste tavole), come vorrei, disgusto per le sue pulsioni.
Mi lascia da solo e disarmato davanti a una scelta. E io quella scelta non so farla.

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