Il Peccato Originale dell’archeologia (a fumetti e non solo)

Emiliano Barletta | Visiting Professor |

Siamo a Napoli il giorno di natale del 1890, in Piazza della Santa Carità. Un uomo modestamente vestito improvvisamente crolla a terra. Sebbene torni presto in sé, non riesce a pronunciare una sola parola. Le persone che gli prestano soccorso, pur cercando con insistenza, non riescono a trovare alcuna informazione che possa aiutarli a identificarlo, tranne per un un biglietto da visita che porta il nome del Prof. Vincenzo Cozzolino, un famoso otorinolaringoiatra di Napoli.
Lo sconosciuto viene immediatamente trasportato presso una vicina stazione di polizia. Nel frattempo, viene avviata una ricerca per trovare il Professore Cozzolino, il quale, non appena riceve la notizia, riconosce immediatamente l’uomo colpito da afasia e suggerisce alle autorità di condurlo al Grand Hotel in Piazza Umberto, dove alloggia.
L’ingresso nell’hotel del malato, supportato da quattro persone, non passa inosservato ai presenti nella sontuosa hall dell’albergo. Tra di loro c’è anche Henryk Sienkiewicz, il futuro vincitore del Premio Nobel per la Letteratura. Animato da una crescente curiosità, Sienkiewicz chiede al direttore dell’hotel chi sia quell’individuo. Con tono solenne, il direttore risponde: «Il grande Schliemann, il famoso archeologo». Heinrich Schliemann muore il giorno dopo, da solo, all’età di 68 anni.

Così si conclude la vita di una delle personalità più controverse nella storia dell’archeologia. Heinrich Schliemann, un individuo avventuroso, senza scrupoli ed eclettico, dotato di straordinaria abilità nel plasmare la sua immagine attraverso incredibili falsificazioni, ha per sempre associato il proprio nome a scoperte straordinarie a Hissarlik (Troia) e Micene. Ma non solo, la leggenda che creò di se stesso come colui che contro l’opinione di tutti, filologi, storici e archeologi, aveva fortissimamente creduto, guidato solo dalla fede cieca in Omero e dal suo genio nel trovare il “Tesoro di Priamo”, è stato il peccato originale su cui si è plasmato nell’immaginario collettivo la figura dell’archeologo.

Non per niente l’archeologo nei fumetti, nei film o nei videogame spesso è rappresentato in ruoli lontani dalla vera ricerca sul campo. Viene dipinto come un predatore di tombe e reliquie, un cacciatore di tesori antichi o colui che con coraggio e determinazione è andato contro l’inviolabilità della scienza ufficiale. Questa rappresentazione ha trasformato l’archeologo in un cliché narrativo che, ironicamente, spesso con connotazioni positive anziché negative, viene associato a quello che nella realtà è un tombarolo. L’archeologo, invece, è uno scienziato impegnato nello studio meticoloso degli strati che compongono un sito archeologico, analizzando le varie tracce delle attività umane per ricostruire le complesse storie di un luogo antico.

Un esempio di questa contrapposizione tra scienziato e tombarolo, lo troviamo nel fumetto Tunnel di Rutu Modan uscito in Italia in piena pandemia nel 2021.
A prima vista, la trama può sembrare una combinazione tra I predatori dell’Arca Perduta e l’universo di Hergé. La storia ruota attorno all’archeologo Israel Broshi, che, alla fine degli anni Ottanta, crede di aver finalmente localizzato l’Arca dell’Alleanza e inizia un delicato scavo vicino a un villaggio palestinese. Tuttavia, il corso delle sue ricerche viene bruscamente interrotto dall’esplosione della prima Intifada. Molti anni dopo, sua figlia Nili, con un passato segnato da insuccessi accademici, pochi mezzi finanziari e la responsabilità di crescere un figlio da sola, decide di riprendere in segreto i lavori di scavo del padre. Sfortunatamente, il sito di scavo si trova vicino alla controversa barriera di separazione israeliana.
Naturalmente, Nili non è l’unica a inseguire questa chimera. Altri personaggi si interessano ai tunnel che conducono all’Arca: un collezionista di antichità interessato solo al valore dei manufatti storici ebraici, il fratello di Nili pronto a tutto, anche al doppio gioco, pur di ottenere il posto di ordinario all’università che era stato del padre, un ebreo ortodosso che vede nella scoperta dell’Arca un mezzo per garantire il controllo eterno dei territori palestinesi e un professore di archeologia che cerca la fama e il riconoscimento a ogni costo. Senza dimenticare i palestinesi che usano il tunnel per rifornire il villaggio di viveri, cercando di evitare i Check Point israeliani. Ma quando così tante persone, sia israeliani che palestinesi, desiderano la stessa cosa, le cose sono destinate a finire inevitabilmente con un’esplosione.

Proprio come nel mondo reale, i personaggi di Tunnel sono strettamente legati tra loro (l’archeologia è un piccolo mondo dove tutti conoscono tutti). Le loro motivazioni per la ricerca dell’Arca, tuttavia, sono profondamente contrastanti e, in ultima analisi, politiche. Non è un segreto che lo Stato israeliano utilizzi l’archeologia come strumento per sostenere le sue rivendicazioni territoriali in Cisgiordania. Ma Nili è un’eccezione a questa regola. Le sue motivazioni sono chiare: vuole riabilitare sia l’immagine di suo padre che la sua stessa reputazione. Nonostante la sua notevole preparazione personale, Nili non può essere considerata un’archeologa, poiché le sue azioni rivelano chiaramente il suo fine personale. Per lei, l’oggetto da ritrovare è più importante della ricerca stessa. Rafi Sarid, il direttore del dipartimento di archeologia dell’Università di Gerusalemme, l’antagonista principale della storia, è l’unico a ricordare a Nili il suo ruolo di archeologa abusiva.
Rutu Modan dimostra abilità nel costruire una trama avvincente e dialoghi efficaci, riuscendo persino a rendere Nili una archeologa più “credibile” del fratello, coinvolgendoci nella storia e distogliendo l’attenzione dall’attualità israeliana. Tuttavia, è proprio con il personaggio più interessante, Rafi Sarid, che l’autrice ci aiuta in questa analisi. Infatti, la sua figura accademica e il suo atteggiamento di sufficienza verso i colleghi palestinesi, che può facilmente ingannare, riflettono l’arroganza tipica di un paese occupante che affida il lavoro sporco ad altri ma si attribuisce i meriti. Mentre, nel dualismo tra Rafi e Nili è possibile riscontrare la divisione tra l’archeologo da campo e quello da biblioteca, una distinzione riscontrabile nei vecchi manuali di archeologia in cui il secondo spesso riceve maggiore riconoscimento. Come detto, è l’archeologo da biblioteca, l’accademico, il cattivo della storia. Al contrario è lo scavatore, il cercatore di tesori, contro tutto e tutti il buono. Ma nel finale della storia, i ruoli si ribaltano, soprattutto nell’epilogo del personaggio di Sarid, dove emerge la sua ipocrisia e la sua vera natura di cacciatore di tesori, mentre Nili trova la sua redenzione riprendendo la strada accademica abbandonata.

Non è un caso che a Rafi sia affidata una frase chiave, espressa con disprezzo verso Nili: «Non importa chi trova l’Arca, quello che conta è chi scrive l’articolo». Un’affermazione che, in conclusione, si lega innegabilmente alla locuzione latina «verba volant, scripta manent» e che sembra essere  una metafora perfetta, in questo contesto, per rappresentare il peccato originale della figura dell’archeologo, simboleggiato dai libri lasciati da Heinrich Schliemann, o, nella situazione politica attuale dei territori palestinesi, che a scrivere la storia del passato siano gli occupanti e non gli occupati.

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