Post-it: Un noioso, un fotografo disambientato, un fumetto di pesce e la dittatura del formato

Paolo Interdonato | post-it |

Il western, inteso come genere narrativo (ma, con ogni probabilità, anche musicale) mi annoia a morte. Me ne accorgo tutte le volte che ci vado a sbattere contro. Figurati che ho delle difficoltà perfino con Ken Parker o Blueberry. Mi ricordo che Gli spietati di Clint Eastwood è bellissimo e mi ripropongo di rivederlo. Prima o poi. Da circa trent’anni.
Non ascolto spesso la radio. Solo quando salgo in auto. E, giuro, non è un evento frequentissimo. Eppure, nei giorni scorsi, ho sentito un sacco di volte il trailer audio del nuovo film di Wes Anderson, Asteroid City. Già il fatto che qualcuno del marketing abbia deciso che le voci dei doppiatori italiani – che scandiscono bene vocette querule e fastidiose, alla maniera dei film di quel manierista di Anderson – siano un buon selling point mi incupisce. Il nome di quel regista è un brand. Un marchio che si porta dietro la sua fotografia, i suoi fermo immagine, la sua palette di colori, la recitazione finto misurata dei suoi attori, l’ostentare delle sue ossessioni patinate, i suoi feticci, i suoi racconti con struttura complessina ma non troppo, i suoi dialoghi stralunati e intelligenti, il suo essere sempre Wes Anderson. Ecco… a me già il cinema non piace particolarmente. Mi scatena sonnolenza. Quando il regista, poi, copre tutto con la sua presenza, ecco, trovo il cinema insopportabile. Mi sembra pacchiano come un bagno con i sanitari neri e la rubinetteria dorata.
Mi pare che Wes Anderson sia l’esponente più evidente di quella patologia artistica che porta a omogeneizzare qualsiasi opera sotto uno spessissimo strato di STILE. Come quei musicisti – bravi e intelligenti, eh – che compongono cose belle e importanti e, poi, quando le eseguono, hai la sensazione che stiano facendo sempre lo stesso pezzo. E vale anche per i romanzieri, i cuochi, i comici, i fumettisti…
Sono andato a vedere una bella mostra fotografica all’Armani Silos. Sulle pareti erano allineate le foto di Guy Bourdin. Me la sono goduta proprio. Ogni foto un racconto e un enigma (patinatissimi, eh, ma – fidati! – vera bellezza), vestiti da pubblicità di scarpe e di vestiti. Me la sono goduta anche se chi ha arredato l’Armani Silos, ha voluto cessi con sanitari neri e rubinetti dorati: sembravano messi lì per favorire citazioni di Bruno Munari sul lusso e il cattivo gusto. Non so niente di fotografi di moda. Devo rimediare. Devo avere un contatto maggiore con quella roba. Allora ho comprato l’ultimo numero di “Vogue Italia”, nella speranza di incorrere in fotografie belle e cariche di racconto come quelle di Bourdin. Dopo cento pagine di pubblicità, trovo un’intervista piccolina, di quelle rilasciate in serie durante la promozione di un nuovo film. L’intervistato è Wes Anderson. I tre fotogrammi di Asteroid City che corredano l’articolo sono pure più noiosi dell’audiotrailer. E mi chiariscono una cosa: il film ha una pulsione western, sottolineata dalla scelta di titolazione dell’intervista: “Il selvaggio Wes”.
Ti ho già detto che il western mi annoia a morte? E pure Wes Anderson.

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Però, la mostra di Guy Bourdin, se passi da Milano, va’ a vederla. Vale veramente la pena.

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Già che ero in edicola ho comprato pure “Skorpio”, un settimanale di fumetti che ha quasi cinquant’anni. Un tempo, l’ottimo selling point di “Skorpio” era la soubrette nuda in copertina, cui erano poi dedicate quattro o cinque pagine interne piene di foto che, in quegli anni, si dicevano osé: qualche seno nudo, ventri piattissimi, labbra lucidissime lievemente dischiuse e uno sguardo ammiccante. Copertine che erano lì a sottolineare il fatto che i fumetti lì pubblicati fossero l’intrattenimento di un pubblico rigorosamente maschile e non troppo sveglio.
Come sia composto il pubblico di “Skorpio” oggi proprio non lo so. Immagino che quella testata e la quasi gemella “Lanciostory” vendano poche migliaia di copie a lettori maschi sempre più vecchi.
Ho comprato la rivista per la copertina. Non c’era Minnie Minoprio (che, con quegli occhi resi profondi da un trucco nero e quella massa di ricci rossi, turbò la mia preadolescenza) ma un’immagine tratta da un fumetto francese: Ellis island di Phillppe Charlot e Miras. Quella copertina è bella: l’ombra della Statua della Libertà, a testa in giù, col braccio disteso, mentre impugna la fiaccola, sembra arrestare l’avanzata dei migranti che vogliono entrare in America.
Poi ho sfogliato la rivista ed è veramente brutta. Proprio come me la ricordavo. È pure successo qualcosa alla carta e alla stampa: mi sembra che puzzi di pesce. Quasi volesse indicarci un destino migliore per quelle pagine.

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Poi è successa una cosa che non mi aspettavo.
Coltivo un pregiudizio nei confronti delle case editrici dirette da Igort. Mi sembra che il suo amore per alcuni materiali e alcuni formati si sovrapponga, con una noncuranza che trovo fastidiosa, alle esigenze dei fumetti e degli autori che pubblica. Il sogno di Igort di costruire l’Adelphi del fumetto è evidente e, approfittando del suo gusto eccezionale, riesce ad allineare cose belle e importanti. Però poi omogeneizza tutto, facendo filtrare tutte le pagine pubblicate attraverso alcuni formati che usa come fosse il brigante Procuste che ti invita a stenderti sul suo letto. E mi viene spesso da maledire il giorno in cui ha scoperto quanto gli piaceva la carta avoriata. Idealmente, tutti i titoli della sua Coconino e tutti quelli di Oblomov possono essere allineati su mensole uniformi per altezza (a volte, con un po’ di malanimo, mi chiedo se non definisca le dimensioni della pagina sulla scorta della misura dei mobili di casa sua).
Come ti dicevo, nonostante il pregiudizio, mi è successa una cosa inaspettata. Ho comprato Hitomi di HS Tak e Isabella Mazzanti. È un bel fumetto di samurai e vendetta, raccontato bene e con pagine bellissime. L’editore originale è Image e i cinque capitoli che compongono la storia sono usciti originariamente in formato comic book e poi raccolti in un volume 17,8×25,4. Oblomov ha collocato quelle pagine tra i volumi 21,7×29,5 e ci ha messo pure la carta bianca. Porca miseria! Che ottima scelta. Una goduria per gli occhi. La forma della pubblicazione ha cambiato completamente lo spazio di percezione di quel fumetto. Non c’è niente di strano: con il fumetto è sempre così. Eppure ho il sospetto che immaginare Hitomi in quel formato, durante le fasi di progettazione editoriale, richiedesse un’attenzione rara. Bravo Igort.

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