I supereroi e lo scontro finale

Paolo Valeri | Antropocomics |

Cos’è la storia di un supereroe? In principio era letteratura a buon mercato che si passava di mano in mano. Una storia in cui si poteva entrare, col gioco i bambini replicavano le gesta del proprio beniamino. Persino sul fronte europeo della carneficina mondiale, i soldati sopravvivevano aspettando nuove storie, da divorare su brande sgualcite o nel vano cassonato di un camion da trasporto truppe. Quella storia oggi è un gioco, una action figure o un videogame a tema supereroistico: una storia che si mostra in tutta la sua essenza come veicolo di ritualità. Nella visione condivisa di film o nella partecipazione a eventi pieni di cosplayer, questa storia funziona come molti altri riti diffusi: momenti in cui fruiamo di storie in maniera singolare per poi discuterne in comunità, reali o virtuali che siano. Eppure quella storia, la storia di un supereroe, non è come le altre. Lei è sempre uguale a se stessa: un uomo acquista dei superpoteri e lotta contro il nemico. La lotta, lo scontro, la battaglia: è questo l’elemento che, per quanto si sia reso più sofisticato negli anni, è rimasto sostanzialmente il medesimo dalla nascita dei supereroi a oggi. Non si dà narrazione supereroistica senza lo scontro finale!

Cosa manca in questo scontro? Beh, manca Marx. Manca la classe. Scontri tra individui legati a posizionamenti economico-sociali differenti sono rari ma anche dove appaiono, dove povertà e divario sociale vengono affrontati di petto, è l’impianto stesso della lotta a confermarsi esclusivamente come battaglia tra due individui. E il gruppo? Senza la categoria di classe, che di per sé richiede una dimensione collettiva, cosa aggrega gruppi di individui che lottano assieme? Altri paradigmi, in primo luogo quello della parentela: pensate ai Fantastici Quattro. Oppure quello genetico e razziale che pervade le storie dei mutanti: in queste narrazioni il conflitto alla base dello scontro è tutto ideologico, pacifica convivenza o dominio su una specie biologicamente inferiore? O ancora quello dell’inquadramento militare-cameratesco: gli agenti dello Shield o gli stessi Avengers sono solo due dei numerosi gruppi che si formano con l’obiettivo esplicito di mantenere l’ordine sociale, sovente di fronte a uno spaventoso nemico esterno da sconfiggere. Insomma, fatta fuori la classe rimangono parentela, razza, e militarismo. Già Max Gluckman, nel suo lavoro in Africa, tra i Baraotse, quasi sessanta anni fa, era stato testimone di come i rituali occultassero le disarmonie per sancire rapporti di fedeltà. Una sostanziale funzione manipolativa che ritroviamo identica, all’opera anche negli scontri tra supereroi: è lo stesso posizionamento in proscenio del conflitto che ne occulta le premesse di classe. Queste scompaiono dentro storie che rinsaldano gli eroi attorno ai principi di parentela, razza e militarismo e li legittimano attraverso il conflitto come orizzonte condiviso.

Ma queste storie diventano anche Storia: le narrazioni dei supereroi nascono dall’onda lunga della crisi del ‘29, appaiono alla metà degli anni Trenta negli Stati Uniti già rimasticando narrativamente lo scontro sociale generato dalla Grande Depressione. Il fumetto come medium ha da subito un enorme successo commerciale e prospera per tutto il decennio fino alla guerra: è la Golden Age dei supereroi. Così, mentre l’Europa produce una mitizzazione delle proprie figure dittatoriali, dall’altra parte dell’atlantico si stampano storie mitiche di uomini forti che da soli possono salvare il mondo. Un’opposta polarità fiorita sull’übermensch nietzschiano: un vero e proprio spazio di conflitto ben rappresentato dalla censura di regime da un lato e dalla copertina del primo numero di Capitan America dall’altro, il celebre pugno sulla mascella di Hitler. Dopo la conclusione del secondo conflitto mondiale le storie di supereroi registrano una sensibile flessione nelle vendite. Nonostante lo sdoganamento di maschere e mantelli in tutti i paesi della vecchia Europa perché la situazione si rianimi bisogna aspettare gli anni Sessanta, quando fanno il loro ingresso in scena i “Supereroi con super problemi” Marvel. Le ambientazioni diventano riconoscibili, New York invece delle fittizie Metropolis e Gotham City, e in questi scenari reali si riversano le battaglie per i diritti civili, la paura del conflitto atomico, la corsa allo spazio, la guerra fredda e quella del Vietnam. Progressivamente però, con il “riflusso” e con la “fine della storia”, l’interesse per i supereroi scema di nuovo. Il crollo del muro segna una nuova battuta d’arresto e più la globalizzazione avanza, più l’interesse e le vendite degli albi calano. L’immaginario dei supereroi però si allarga: ci sono le prime produzioni in serie di merchandising, i primi esperimenti tra piccolo e grande schermo e il supereroe viene esportato definitivamente oltre i confini del mondo occidentale. Asia, Africa e America Latina diventano mercati da conquistare ma anche terreno di coltura per varie reinterpretazioni del medesimo mito (da Mazinga ai Saint Seiya, per intenderci). La nuova grande ondata di riscoperta avviene invece nei primi anni del nuovo millennio e coincide con l’incarnazione filmica di queste storie; per tutti gli anni Dieci del nuovo millennio una versione aggiornata dei vecchi eroi irrompe nelle fantasie dei più giovani e ciò che era una storia da nerd torna a essere centrale e pervasivo come ai suoi esordi e forse di anche più. Questa breve carrellata, di certo non esauriente, fa saltare subito all’occhio come i periodi di maggior successo delle storie di supereroi abbiano sempre preceduto grosse fasi di conflitto. È così per la Seconda guerra mondiale che scoppia dopo i suoi esordi. È di nuovo così con le tensioni sociali dei decenni Sessanta e Settanta, indissolubilmente legate all’apice della guerra fredda. E purtroppo ci troviamo costretti a constatare come questa tendenza sembri trovare conferma anche nella situazione attuale, dove allo sbarco dei supereroi al cinema e a un rinnovato interesse generale, sta seguendo una fase di instabilità geopolitica di proporzioni mondiali.

Il rapporto tra conflitto narrativo e conflitto reale potrebbe certo essere un riflesso preveggente e impresso su carta delle stesse istanze che vanno serpeggiando di volta in volta nella società; una certa sensibilità latente che trova sfogo in un particolare prodotto dell’immaginario collettivo prima di divenire un oggetto reale. Oppure possiamo pensare la ritualità diffusa di queste storie esattamente come John Layard pensava il rito Maki: come un ripetuto processo di individuazione. Momenti ripetuti nei quali il soggetto mira a stabilire un equilibrio dinamico tra il proprio mondo psichico e le proprie azioni pratiche – come la guerra – attraverso l’accostamento con gli archetipi che vi sono rappresentati – i supereroi, ad esempio.

Ma che, scherzi? Stai dicendo che la storia di un supereroe ha la funzione di prepararci a una dimensione collettiva di conflitto? Beh, non è certamente l’unica lettura possibile, d’accordo. Però, ammettiamolo: è certamente quella più interessante.

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