Che cos’è la magia: sedicesimo passo

Francesco Pelosi | Mappaterra del Mago |

Uno dei libri più importanti pubblicati in Italia a proposito del pensiero di Alan Moore è senza dubbio Un disturbo del linguaggio, edito da Edizioni BD nel 2009 e ormai fuori catalogo (ma fortunatamente reperibile online nell’usato).
Il volume è la traduzione di A disease of language (Knockabout, 2006), raccolta di due storie disegnate da Eddie Campbell, collaboratore decennale di Moore su From Hell, che adattano altrettante performance del “The Moon and Serpent Grand Egyptian Theatre of Marvels”. 
Sotto questo nome da baraccone (che non fa nulla per nascondere l’autoironia implicita) si cela la “società segreta magica” di Moore e soci: fra gli altri, la moglie Melinda Gebbie, l’amico e collega di una vita Steve Moore (nessuna parentela, come i due fanno notare ogni volta che possono), i musicisti Tim Perkins e Dave J e l’artista visivo John Coulthart
In appendice, il libro ospita poi una lunghissima intervista di Campbell a Moore datata 2002, che approfondisce il rapporto dello scrittore con i mondi della magia e indaga il lato meno conosciuto della sua attività artistica, ovvero le performance in cui Moore oltre che autore del testo è anche esecutore.

Tali performance nascono dalla necessità di rappresentare in qualche modo il mondo “magico” in cui Moore ha capito di vivere dopo essersi autoproclamato mago nel novembre 1993. Stando a quel che racconta, pochi mesi dopo la clamorosa boutade, e precisamente il 7 gennaio 1994, lui e Steve Moore furono esposti a una esperienza inusuale (mai specificata, ma presumibilmente una sorta di iniziazione e/o di contatto con qualcosa di metafisico) che li convinse a fondare la loro società segreta, talmente segreta che, nelle parole di Moore, «in effetti non esiste, né ha alcun membro».

Come per la sua attività letteraria, anche il rapporto con la magia di Moore è perennemente in bilico tra la serietà e il gioco, conscio che quando si gioca lo si deve fare il più seriamente possibile. E così, nel racconto che fa a Campbell della sua società segreta inesistente e delle sue performance, il fumettista-mago si prende in giro continuamente, palesando la falsità di ciò che afferma ma allo stesso tempo rivendicandone l’assoluta veridicità. 
Racconta per esempio che Steve Moore, che praticava la magia già prima di lui, gli aveva accennato alla necessità di votarsi a una qualche divinità, una rappresentazione di qualcosa che sarebbe diventato per lui, e solo per lui, di importanza capitale. Steve adorava già da qualche anno Selene, una delle quattro personificazioni della luna dei culti greci; Alan, dal canto suo, quando incappò casualmente nella raffigurazione di Glicone, antico Dio serpente dell’ Anatolia con testa umanoide e folti capelli biondi, il cui culto risaliva al II secolo dopo Cristo, non ebbe dubbi: quella era la sua divinità.
Scoprire poi che il culto di Glicone, inventato da Alessandro di Abonutico, era stato sbugiardato da Luciano di Samostata in un suo pamphlet intitolato Alessandro il falso profeta, dove venivano messi a nudo tutti gli imbrogli del sedicente sacerdote, compresa la marionetta che Alessandro aveva creato per mettere in scena le apparizioni di Glicone, non fece che aumentare la convinzione di Moore.

Nelle sue parole: «Per quando mi riguarda, una delle debolezze del cristianesimo è l’insistenza sulla storicità di Gesù.  Questo significa che, a tutti gli effetti, se dovesse venire incontrovertibilmente dimostrato che Gesù non è esistito fisicamente, l’intero cristianesimo collasserebbe, inclusi i principi filosofici all’interno del suo solido nucleo, quando non ci sarebbe mai alcun bisogno di un simile collasso. Confessare che il tuo Dio è un effetto speciale fin da subito mi sembra una strategia molto più onesta e, forse, alla fine, più feconda. E più divertente».

Questo discorso si sposa perfettamente con la concezione che Moore ha degli Dei, sviluppata nell’ormai noto quarto capitolo di From Hell: l’unico luogo in cui gli Dei sono reali al di là di ogni dubbio è la nostra mente. E se la mente è l’unico luogo in cui sono veri, allora in ogni altro luogo al di fuori di essa questi sono “falsi”, e spacciarli per reali equivale a mentire. Per questo è molto meglio dire in anticipo che le rappresentazioni materiali degli Dei sono menzogne e che l’unica cosa che un Dio può fare è sostenere “psichicamente” il suo seguace nel processo di esplorazione di sé stesso e nell’espansione della propria coscienza.

Dice ancora Moore: «È mia convinzione che tutti gli Dei non siano altro che racconti, o almeno idee che stanno alla base di racconti, ma racconti e idee che sono diventati in qualche modo quasi vive e consapevoli, o almeno così sembrerebbe a tutti gli effetti pratici».

Se gli Dei non sono altro che storie, reali solo nella nostra mente, allora si possono manifestare nella realtà venendo raccontate attraverso la parola, il linguaggio. 

Aleister Crowley diceva appunto che la magia altro non è che “un disturbo del linguaggio”: qualcosa che nasce nella mente, nel reame delle nostre divinità (l’Idea-Spazio di Moore, l’Immateria di Promethea, il luogo in cui vive l’immaginazione) e che viene trasportato nella realtà tramite la parola, con un atto di volontà. «In principio era il Verbo» dice il Vangelo di Giovanni, dimostrando come tracce di questo concetto, se vogliamo appoggiare tale interpretazione del versetto, si possono ritrovare anche nei testi sacri del Cristianesimo.

Il motto di Thelema, la filosofia elaborata da Crowley, è proprio «Fai ciò che vuoi sarà tutta la Legge. L’amore è la Legge, amore sotto la volontà». La parola greca “Thelema” sta a significare la volontà, il desiderio ma, lontano da un semplicistico “fare quello che se ne ha voglia”, la volontà di cui parla Crowley (e di cui parlano in maniera simile anche altre scuole iniziatiche, come per esempio quella di Hassan i Sabbah, il Vecchio della Montagna con il famoso «Nulla è vero, tutto è permesso» o Sant’Agostino e il suo «Ama e fa’ ciò che vuoi») si riferisce, sempre secondo il suo pensiero, alla vera volontà di ognuno, che risiede in una parte eterna del nostro essere e che, una volta ricontattata, ci permetterà di agire in conformità con la legge dell’Universo. La Legge con la maiuscola di cui parla Crowley.
Moore, poi, conclude il discorso riportando il tutto sul suo piano prediletto, quello del gioco, dicendo che Glicone era la scelta perfetta per lui, perché una volta deciso di voler esplorare un mondo immaginario (quello della magia e degli Dei) avrebbe avuto bisogno di una guida, e un “amico immaginario” era certamente la scelta migliore per lo scopo.
A questo punto, è interessante notare che il nome della società segreta “The Moon and Serpent Grand Egyptian Theatre of Marvels” fa riferimento sia alle divinità a cui sono devoti i suoi due fondatori, Selene, la Luna, e Glicone, il Serpente (che per Moore, oltre a tutto quello detto fin’ora, presentava un’altra perfetta coincidenza di significato, accomunandosi istintivamente al doppio serpente del caduceo di Ermete Trismegisto e alla doppia elica del DNA dalla quale tutta la vita conosciuta prende forma), sia alla simbologia esoterica espressa in Promethea, secondo cui il serpente simboleggia la materia e la luna l’immaginazione. I due, avvinghiati in una danza eterna, danno forma a tutta la realtà, come viene rappresentato sul Tarocco XXI del mazzo di Crowley (disegnato da Lady Frieda Harris) L’Universo.

Per trasmettere tutte queste istanze con le quali stava venendo in contatto, nel luglio 1994 Moore e i suoi compari mettono in scena la prima di cinque performance uniche e irripetibili, con musiche, proiezioni, danze e, ovviamente, il reading dello stesso Moore che scandisce il tutto. 
Le performance sono irripetibili perché vengono scritte appositamente per il luogo in cui verranno rappresentate (di volta in volta un teatro, un tribunale, un pub), seguendo le speculazioni psicogeografiche di Iain Sinclair, secondo le quali ogni luogo è pregno di avvenimenti e facendo ricerche si può certamente incappare in straordinarie sincronicità che si colmeranno inaspettatamente di significato.
La psicogeografia è come un mezzo di divinazione del significato delle strade attorno a noi e, spingendoci ancora oltre, si presenta come il processo mentale più proficuo, quasi un allenamento, per provare a intendere l’Eternalismo einsteniano di cui i lavori di Moore si ammantano costantemente. Far coincidere tutti i tempi di un solo luogo (quindi di un solo spazio) per raccontarne le connessioni porta inevitabilmente a una visione unitaria dello spaziotempo, e sembra proprio essere questo l’intento di Moore con le sue performance.
L’idea è quella di provocare nello spettatore una sospensione dell’attività razionale per farlo entrare nello stato mentale della magia, attraverso un bombardamento sensoriale di informazioni che ne alterino la percezione. Lo stesso tipo di tecnica alla base dell’opera lirica (Monteverdi, pioniere di quest’arte, era un alchimista praticante) come delle cerimonie delle varie religioni (per esempio i canti e gli incensi della messa cattolica) e anche di alcune ritualità di Thelema come della Golden Dawn, per non parlare di tutte le cerimonie sciamaniche dal Sudamerica alla Siberia. E anche le splendide pagine di Promethea illustrate da J. H. Williams III, con tutti i loro sgargianti e intricati barocchismi espressionisti, sembrano concorrere allo stesso obiettivo (in questo senso, Wrap party, l’ultimo numero della saga, è emblematico: l’albo originale, infatti, presentava la particolarità, una volta “spaginato”, di diventare due poster giganti formati dalle ventiquattro pagine della storia, realizzate con colori psichedelici, mentre balloon e didascalie condensano tutti gli argomenti trattati nel corso dei trentuno numeri precedenti: un’esperienza di lettura decisamente lisergica).

Le cinque performance della società magica di Moore sono state registrate e poi pubblicate su CD, ed è proprio ascoltandole che Eddie Campbell ha avuto l’idea di trasporne due a fumetti: Sacco amniotico e Serpenti e scale, raccolte poi in Un disturbo del linguaggio.
Ormai è chiaro che, secondo Moore, noi non facciamo mai esperienza diretta dell’Universo in cui esistiamo. L’unica cosa di cui abbiamo un’esperienza reale è la nostra coscienza dell’Universo. Per questo gli Dei – nella sua definizione: «Complessi agglomerati di idee divine che non hanno forma o manifestazione fisica eccetto l’Universo stesso» – sono in definitiva l’essenza che precede la nostra forma. Come dire che sono le idee a crearci, non siamo noi a creare loro.

Conclude infine Moore: «La magia, per come la intendo io, è un patto tra un individuo e il suo personale Universo, non c’è autorità centrale a cui uno debba fare attenzione a meno che non voglia. Le più potenti parole magiche che conosca, e che ho imparato da mia madre, sono “Perché l’ho detto io!”».

Arnesi del cartografo

Tutte le citazioni di Moore sono tratte dall’appendice di Un disturbo del linguaggio di Alan Moore e Eddie Campbell, Edizioni BD, Milano, 2009.

Moore parla in maniera molto chiara della sua visione della magia nel suo articolo La magia scorre lungo i cavi come elettricità nel volume The Best of Dodgem Logic (001 Edizioni, 2013), mentre alcuni testi in cui si trovano idee simili possono essere Teoria e pratica della magia di Israel Regardie (Hermes Edizioni, 1983), La Cabala mistica di Dion Fortune (Astrolabio, 1973), Il simbolismo ermetico (Melchisedek Edizioni, 2018) e I Tarocchi (Edizioni Mediterranee, 1973), entrambi di Oswald Wirth e Le vie dell’occulto di Sebastiano Fusco (Venexia, 2018).

Da anni siamo poi in attesa della pubblicazione del The Moon and Serpent Bumper Book of Magic, curato da Moore insieme a Steve Moore (che nel frattempo, come dice il suo amico, è andato a verificare se le loro teorie sull’Universo Blocco sono corrette), libro che dovrebbe essere una sorta di magnum opus della visione magica di Moore & soci.

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