Il volto del nemico

Paolo Interdonato | post-it |

Joe Sacco si è sempre disegnato così: nasone grosso e adunco, labbra enormi, occhiali spessi che non lasciano intravvedere le pupille.
Un concentrato di stereotipi che giocano tanto con la riconoscibilità del personaggio dei fumetti quanto con elementi provenienti dalle rappresentazioni xenofobe dei popoli.

È abituato alle contraddizioni. Nella vita ha dovuto gestire la complessità di due pulsioni diverse: voleva essere un giornalista e un fumettista. Si è inventato un mestiere. C’erano stati dei precedenti, ma nulla di così sistematico e mirato. E a vedere bene, tutti quei precedenti venivano dalla satira disegnata e dal fumetto underground.

Proprio al fumetto underground, Sacco, nato a Malta, vissuto a Melbourne da quando aveva un anno e trasferitosi a Los Angeles a dodici anni, nel 1972, aveva guardato per definire il proprio disegno e il proprio racconto. Guardando le pagine pubblicate su “Yahoo”, il suo primo comic book personale edito da Fantagraphics tra il 1988 e il 1992, si vedono perfettamente quelle influenze: Spain, Rand Holmes, anche Gilbert Shelton e, soprattutto, Robert Crumb.

La carica grottesca di quel segno investe tutti: il giornalista narratore e i protagonisti degli eventi.
La cosa più evidente del giornalismo di Sacco è che, visto che si disegna spesso nelle storie che racconta, non può in alcun modo sparire, limitandosi a riportare i fatti e la verità. Sacco aderisce alla scuola del New Journalism: non può credere alla bugia di quel giornalismo che si ammanta di imparzialità e ci illude di essere capace di distinguere i fatti dalle opinioni. E se da un lato, Sacco dichiara esplicitamente di riportare sempre e solo la sua versione dei fatti, dall’altro si ritrova a fare i conti con la gabbia dello stile che ha sviluppato.

Ci sta provando da tutta la vita. Cerca di liberarsi della componente grottesca e caricaturale, senza rinunciare alla propria personalità, senza perdere la tenerezza. E ci riesce. Continua a farci bene e male, anche ora che sa tracciare tessiture finissime che dicono la vita senza nascondersi dietro a un nasone o un occhio a palla.

All’inizio però, questa cosa gli era più difficile.

Nel 1994, sono incappato in Palestine Occupied Nation, primo volume di un lungo reportage. Avevo sentito parlare di Sacco, avevo visto perfino qualche pagina, ma non mi aspettavo niente del genere.
La prima cosa che mi ha colpito di quel fumetto è stato il rumore. La cascata di didascalie e balloon che cade, scrosciando, sulle immagini, in cui i corpi sono deformati e caricaturati, inquadrati dal basso o dall’alto, in prospettive esasperate. Gli oggetti, le architetture, le macchine sono rappresentati con grande precisione e un tratteggio curatissimo definisce perfettamente luci e ombre. In quel mondo reale, mentre succedono fatti che puzzano oscenamente di realtà, si muovono personaggi deformati dal disegno.

Poi, dopo una quarantina di pagine, arriva il capitolo che si chiama Hebron.

Si apre con un gruppo di ragazzi ebrei , inquadrati dal basso, con armi a ripetizione, strette tra mani gommose. I volti rabbiosi, in testa la kippah, uno indossa ray-ban da cattivo. Sullo sfondo, la città: l’inquadratura permette di vedere sia i tetti degli edifici, con le antenne televisive e una cisterna, sia il segnale stradale che indica un passaggio pedonale. Tra le canne dei fucili, fanno capolino volti arabi: un paio di donne col capo coperto, un vecchio con kefiah e sigaretta e un ragazzino che restituisce lo sguardo di disprezzo ai militari. C’è anche Joe Sacco, nasone, grosse labbra, occhiali che nascondono gli occhi e l’espressione. Sappiamo come si sente grazie alla sua voce narrante:

«Regola numero uno: evitare i gruppi di adolescenti… Cioè, perché rischiare di sbattere il muso contro un giovanotto in piena tempesta ormonale quando invece possiamo attraversare la strada? Ed è sempre meglio girare alla larga dai ragazzi con le Uzi…»

Volti pagina e Joe è da solo, sfoglia una guida. Ha trovato un luogo sacro sia agli ebrei che ai musulmani: la Grotta di Macpelà. La vediamo sullo sfondo e, come fa notare  il giornalista, non sembra una grotta. Il nostro viene avvicinato da un anziano con il capo coperto, che si offre di fargli da guida. È chiaramente un arabo. Parte il tour ed è frenetico. Sacco costruisce una pagina nella tradizione delle riletture shakespeariane di Gianni De Luca: Due corpi che attraversano rapidi il sito, mentre l’arabo snocciola informazioni velocissime e il fumettista fatica a stargli dietro. Le parole si incasellano in didascalie che vanno a comporre un ventaglio di approssimazioni e dubbi irrisolti.
Alla fine del giro, cinque o sei ebrei circondano i due e scoppia un tafferuglio sul senso del luogo tra il gruppo e la guida. Fortunatamente gli animi si sedano e il gruppo si allontana per pregare. Joe Sacco è chiaramente scosso, non ha capito nulla, parlavano in ebraico.
Il gruppo di ebrei stava mostrando il proprio disprezzo per Maometto e per l’Islam. Insultavano, bestemmiavano. Di fronte alle spiegazioni, Sacco chiede al vecchio se pensa che arabi ed ebrei potranno mai convivere pacificamente. La risposta è netta:

«Possiamo vivere con gli ebrei orientali, con quelli che vengono dall’Iran, dal Nordafrica, ma gli ebrei europei sono diversi… Cercano sempre di stare in alto, di comandare, di prendere… Tu sei una persona, io sono una persona. Siamo tutti persone, tutti veniamo dalla polvere. I romani, i bizantini, i crociati, i turchi, gli inglesi, tutti sono passati da qui… E adesso dove sono? Spariti. Dov’è adesso l’Unione Sovietica? Sparita. Spariremo tutti. A Dio basta tanto così per cambiare le cose. Solo Dio è grande.»

Così come la prima pagina era occupata interamente dai corpi dei tre giovanotti incattiviti e armati, l’ultima è dominata dal volto dell’arabo. Pelle bruna, occhi acquosi, sopracciglia folte, borse pesanti, la carne della faccia rugosa è morbida e cede alla gravità, la bocca, sovrastata da baffi sottili, è sdentata.
Indice e pollice, di quella mano gommosa e olivastra, indicano lo spazio minuscolo entro il quale dovrebbe muoversi il dio onnipotente per cambiare tutto.

Quel volto carnoso, tracciato con il segno che Sacco ha imparato dal fumetto underground statunitense, è lontano dagli stereotipi. Quell’arabo, incapace di vedere una pace con Israele, è il nemico. E quello è il suo volto.
Non possiamo non amarlo.

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)