240 miglia in trattorino per fare pace

Federico Beghin | post-it |

Non mi piace parlare di cose più grandi di me. Non riesco a parlare di cose che non capisco. La guerra è una “cosa” più grande di me e non la capisco. Su (Quasi) riecheggia il grido «Cessate il fuoco!». Questo lo capisco, anche se è più grande di me. Allora cerco di rapportarlo a qualcosa di più piccolo, rovesciando il «si parva licet componere magnis» latino (non voglio tirarmela, cerco solo di trovare un’utilità agli anni sprecati negli “studi classici”, abbi pietà).

Una storia vera è un film di David Lynch. Aspetta, non scappare! Se stai associando il nome e il cognome del regista alle sue opere più complesse, non ti preoccupare, perché la pellicola di cui sto parlando è lineare, direi semplice, estremamente diretta. Senza girarci troppo intorno, cito Wikipedia: «Si basa su un fatto realmente accaduto e racconta la storia di Alvin Straight, un contadino dell’Iowa che nel 1994, a 73 anni di età, intraprese un lungo viaggio a bordo di un trattorino rasaerba per andare a trovare il fratello reduce da un infarto. Straight coprì in 6 settimane la distanza di 240 miglia (386 chilometri circa), viaggiando a 5 miglia all’ora (8 km/h)».

Parenti serpenti, fratelli coltelli. Penso che a questi due modi di dire se ne possano aggiungere altri. Il fatto è che nel film sceneggiato da John Roach e Mary Sweeney i due fratelli non si parlano da dieci anni. Alvin non ricorda neppure il motivo. Magari era qualcosa di esiziale, magari era una stupidaggine, in ogni caso passa in secondo piano nel momento in cui il protagonista capisce che DEVE andare da Lyle per sincerarsi delle sue condizioni e guardare ancora una volta il cielo stellato insieme a lui.

Nel libricino Essere artisti, Lynch scrive: «Poiché in Una storia vera ci sono pochi accadimenti, quei pochi diventano FONDAMENTALI». Questa volta il maiuscolo non è mio ma del cineasta. Ma quali sono questi accadimenti fondamentali, che potrei chiamare, più in generale, “elementi importanti”? A mio modo di vedere già lasciare a casa da sola una figlia che non sta benissimo mentalmente lo è. Come lo è viaggiare, con mille acciacchi e problemi di vista, per centinaia di chilometri a bordo di un mezzo pensato per tagliare l’erba per un paio d’ore di un pomeriggio tranquillo. Lo è anche aiutare gli sconosciuti e accettare il loro aiuto, seppur con la ritrosia di chi preferisce donare che ricevere. Lo è condividere una serata al bancone di un diner, ricordando gli orrori della guerra, senza giudicare e sentirsi giudicati. Infine, lo è perdonare un fratello per chissà che cosa.

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