Mutatis Mutanti

Stefano Tevini | post-it |

«Oh, ma quelli sono gli immutabili?»

«Mutanti», correggo tra me e me con quella punta di spocchia stizzita del ragazzino intelligente che tuttavia mi guardo bene dal trasmettere alla mia compagna di scuola, ripetente sveglia e molto bellina tragicamente fuori dalla mia portata. L’anno è il 1994, o forse il ’95, e gli X-Men sono arrivati sulle reti Mediaset con una serie animata che ancora tutti ci ricordiamo perché era scritta bene e la nuova ondata di manga e anime andava forte ma non aveva ancora vaporizzato tutto il resto. Io, gli X-Men, li leggevo da qualche anno e, devo dire, il mio punto d’accesso non è stato uno dei più semplici. Claremont per carità tanta roba ma la caduta dei mutanti, la saga australiana, tutta roba poco glamour per un ragazzino delle medie che leggeva solo “Dylan Dog” e voleva vedere la ciccia. Poi ricordo un numero di “Ghost Rider”, avanti di diversi mesi, in cui già compariva la squadra del dopo Claremont, con i costumi figosi e tutto molto edgy anni Novanta, e mi sono convinto che valeva la pena aspettare. Sta di fatto che, nel frattempo, è arrivata la serie animata e pure la ragazzina ripetente, carina e drammaticamente fuori dalla mia portata sapeva più o meno chi fossero “gli immutabili”.

Ricordo i giocattoli nei negozi, ricordo quanto mi sentivo un figo avantissimo tutte le volte che azzeccavo un personaggio, una citazione, una differenza che potevo spiegare con dotta saccenza. Ricordo quant’era bello vedere i miei personaggi preferiti, a quel punto esteticamente allineati con quelli di cui leggevo le avventure nei fumetti, accompagnati da una sigla che gasava duro. Applaudiamo questi eroi, ardimentosi e in gamba come nooooooi (Mutanti X-Men), come nooooooooooi (Mutanti X-Meeeeeen). Che bomba atomica. Poi capitemi, era il momento dell’ormone a palla, a quel punto frequentavo il liceo e mi sembrava che il mondo mi s’aprisse davanti offrendomi tutto, vuoi anche perché la mia era una scuola viva, tutti facevano qualcosa, chi suonava, chi leggeva, chi faceva arte, tutti facevamo un casino di scioperi, assemblee, eravamo agitati. Belli e agitati. E i miei X-Men erano bellissimi. Fighi. Progressisti. Sì, perché tanti si lamentano che ora li avrebbero virati sul woke (parola che io a chi la usa, quasi sempre a sproposito, toglierei l’accesso ai giga e alla tv. Tornate a studiare, bestie. Partendo dal sussidiario) ma lo sono sempre stati, e nel migliore dei modi. Perché gli X-Men ti salvano, anche se sei un fascio e tu li cacceresti in un forno, il professor X crede nella convivenza e le regole della banda sono quelle lì.

Poi qualcosa negli anni, disse Guccini, terminò per davvero. Ne terminarono parecchie, di cose. La scuola. Quell’entusiasmo lì. La serie animata degli X-Men. Qualcosa è tornato, qualcosa no. La serie animata, di recente, sì, perché siamo una generazione incartata su se stessa e in una coazione a ripetere un’infanzia fatata piena di storie e giocattoli bellissimi e vai a darci torto, visto il mondo di merda e di precarietà che ci aspetta là fuori. Quindi, Disney s’è comprata Marvel e ha voluto mettere a frutto gli asset, e all’epoca questo cartoon lo fu. Quindi tiriamolo sì fuori dalla naftalina, ma riattualizziamolo. Il risultato, queste righe vengono scritte dopo i primi tre episodi, non è male. “X-Men ’97”: riprende lo spirito della serie originale con l’ausilio di animazioni più fresche e di una scrittura consapevole di non essere più destinata ai bambini, da cui consegue una maggior libertà anche a livello tematico (Woke, woke, wooookeeeeeee ahahahahahahaahahahahahah). Intendiamoci, resta un prodotto super pop e commerciale, ma di livello e con una punta di cervello, chi lo vede per la prima volta si diverte, e chi lo vide a suo tempo sente il calore, per quanto mitigato dal tempo, di quegli anni lì, qualsiasi cosa abbiano significato nel vissuto di ognuno.

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