POP! è un rumore che allieta le feste. Lo scoppio della legna che arde nel camino, del mais che fiorisce nella padella, del tappo che salta via dalla bottiglia, dei botti in strada ad annunciare la festa del quartiere o, secondo una leggenda metropolitana alla quale ci piace credere, che gli spaccini di zona sono di nuovo forniti…
E poi POP! è anche una promessa di felicità accessibile. Un film, una canzone, un’action figure, un gioco, un piatto, un ammennicolo tecnologico… Però con quel nome sottintendiamo sempre anche un vuoto che si manifesta nel momento stesso in cui lo si consuma. Perché quella roba, il POP!, è una bestia fagocitante: mastica tutto, inghiotte e, poi, lo vomita in un fiume di succhi gastrici e materiale semidigerito che chiamiamo, appunto, mainstream. Ma è davvero così?
Come dice Amleto: «Ci son più cose in una canzonetta di merda o in una app del cazzo, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia». Ma è davvero così?
Il POP! è un inganno, oppure è l’ultimo rifugio possibile? È solo riproducibilità che ha perso l’aura, incapace di scovare il suo “hic et nunc”? O è anche una crepa nel sistema, un cavallo di Troia che scivola dentro la cultura dominante per farne esplodere le viscere? Ci piace perché è facile o perché ci offre uno spazio di interpretazione segreto, un cortocircuito tra chi lo crea e chi lo assorbe? In fondo, quando ci addentriamo nello gnommero del POP!, mica riusciamo a trovare l’estremità di un filo da cui iniziare ad avvolgere la matassa: tutto si chiude in strani anelli,

Amiamo quelle schifezze, ma non ci fidiamo. Sappiamo che il POP! può contenere il fuoco dell’eversione, perché in più occasioni ci siamo bruciati, ma poi ci coglie un dubbio. Non è che – come i tanti che vediamo arrovellarsi in un’agiografia di santi coglioni senza etica o arte – stiamo solo giocando con la lanuggine del nostro ombelico per poi spostarci più in basso e soddisfare desideri che, per quanto giusti, sono abbastanza elementari? Amiamo il POP! per la sua immediatezza e ne siamo terrorizzati per la stessa ragione. Lo viviamo e ci appassiona. Poi cerchiamo di capire i motivi per cui ci ha prodotto quel fremito dietro la nuca, quell’aumento delle pulsazioni, quell’innamoramento. E, allora, appoggiamo sul tavolo tutti gli strumenti che abbiamo: raccontiamo quello che abbiamo sentito, lasciandolo sgocciolare dalla spugna delle nostre esperienze. E, dopo che lo abbiamo analizzato e ci siamo illusi di capirlo, perché abbiamo messo in moto la nostra vorticosa enciclopedia, ce ne andiamo via satolli e soddisfatti. Qualche giorno dopo, mentre compulsiamo i reel, ci torna quella canzone o un frammento di quel gioco o di quel film. E ci scopriamo ancora innamorati. Perché il POP! ci lascia nudi, senza la protezione dell’intellettualismo, in un territorio in cui tutto è visibile e comprensibile. E se la sua forza fosse proprio questa? Se il POP! fosse l’ultimo linguaggio comune rimasto, l’unica possibilità di comunicare in un mondo in frantumi, la soluzione alla maledizione di Babele?
Forse siamo intrappolati nel POP!, forse ne siamo complici, forse è l’unico orizzonte che ci resta. O forse, semplicemente, ci piace troppo per rinunciarci.
E se il POP! non fosse né inganno né rifugio, ma solo il modo in cui il mondo ci mastica prima di vomitarci e renderci mainstream? Se non fossimo spettatori e critici, ma solo materia semidigerita, pronta a essere remixata, riciclata, venduta di nuovo?