Sì, lo so: questo pezzo corre sul filo della banalità. Argomentare sulle sovrapposizioni e gli intrecci che legano i paperi più famosi del mondo al capitalismo è quasi scontato. È dal saggio di Ariel Dorfman e Armand Mattelart (Come leggere Paperino, ed. Feltrinelli, oggi praticamente introvabile – puoi però ripiegare, se supero lo scoglio della copertina bruttissima, su una ristampa anastatica fatta nel 2019 da PGreco) che la questione torna ciclicamente e puntualmente viene ridimensionata scontrandosi coi limiti di efficacia presenti in qualsiasi colonizzazione culturale. Per dirla in parole povere: Paperino & Co. sono molto di più delle premesse su cui sono stati creati.

Eppure quelle premesse rimangono, anche oggi, e ci si deve fare i conti: non tanto per metterci in guardia contro le storie di paperi quanto per farci capire come siamo bravi a fare “trucchi di magia narrativa”, abili a far sparire predazioni e conflitti sotto il tappeto. Anche perché mentre il caro zio Walt riposa in pace la sua creatura, la Walt Disney Company, è ormai ben più di un oggetto del capitale. Al pari dello Stato moderno sembra essere una delle forme più compiute e indispensabili per il mantenimento del sistema capitalista, forse più dello Stato.
Per prima cosa dobbiamo riconoscere, come fa Mariuccia Ciotta, che alla base del grande successo c’è l’intuizione profonda dell’evocazione dell’universo animale, un espediente per ingarbugliare le cose al livello più profondo, quasi metafisico. I personaggi umanimali della Disney danno corpo a un immaginario di ibridi, multi-naturale e sempre cangiante. Un immaginario secolare, se non millenario, che arriva direttamente dal totem delle popolazioni considerate “selvagge”. Insomma, quello che Walt intercetta con la sua sensibilità all’inizio del Novecento è già l’eredità dei tre secoli precedenti di colonizzazione euro-atlantica.
E se è innegabile che il saggio di Dorfman e Mattelart, decisamente figlio del suo tempo, il 1971, e del luogo in cui ha visto la luce, il Cile nella parentesi repubblicana di Allende, subito prima del golpe di Pinochet appoggiato dagli Stati Uniti, sia fin troppo manicheo e tutto concentrato sul lavoro di Carl Barks, riesce tuttavia a porre l’attenzione su almeno alcuni fenomeni interessanti.

Su tutti la mistificazione del denaro: nel mondo dei paperi esiste la ricchezza, esistono i beni materiali, ma è difficile vedere qualcuno nell’atto di produrla. Il lavoro non esiste o si presenta come attività marginale: è una realtà dove si vende e si compra, in continuazione e con ritmo forsennato, ma dove nessuno produce. Una visione quasi profetica se pensiamo alle nostre società odierne, in cui il lavoro è sempre più marginale, sempre più relegato all’ambito dei servizi e dove il grosso della produzione, con il suo corollario di sfruttamento, avviene lontano dagli occhi e lontano dal cuore.
Ma quindi qual è l’origine della meravigliosa ricchezza di Paperone? Semplice, il denaro di cui è pieno il suo deposito era in origine oro o, ancora meglio, qualche manufatto antico. E allora via, all’inseguimento di mappe del tesoro che portano all’oro degli Inca, degli Aztechi, o qualche altro antico popolo dimenticato dalla storia, il cui legame col presente si è dissolto. Ma questa dissoluzione dei legami è una condizione necessaria perché nessuno si ponga il problema riguardo la legittimità della proprietà del tesoro.
In un interessante articolo del 2008, “Dispossession and the Anthropology of Labor“, Sharryn Kasmir e August Carbonella riprendono e superano le tesi di David Harvey mostrando come l’espropriazione non sia solo un evento storico, come l’accumulazione originaria di Marx, ma un processo continuo legato alla riproduzione del capitalismo: il modo stesso in cui funziona. L’accumulazione per espropriazione avviene di continuo attraverso la privatizzazione e la mercificazione di risorse e mezzi di sostentamento precedentemente comuni, e questo è esattamente lo scheletro delle cacce al tesoro dei paperi (e per la verità di quasi tutte le formule narrative di avventura). Quello che vediamo raramente in queste storie non sono solo le conseguenze di quest’espropriazione ma anche la stessa realtà dei soggetti, trasformati in personaggi acquiescenti.
Proprio come i selvaggi colonizzati a partire dal Cinquecento, nessuno di loro è produttore della ricchezza che gli viene sottratta. Sono, anch’essi, una sorta di prodotto naturale, popoli che vivono nella beata condizione dell’infanzia innocente. Sono creature alle quali non si può far del male sottraendogli il tesoro, perché non ne conoscono il valore, l’utilità. I paperi sono buoni e non si permetterebbero mai di rubare qualcosa, lo Zio Paperone siamo noi di fronte a quella parte del mondo che abbiamo deciso di sfruttare.

è scrittore di mezza tacca, disegnatore a tempo perso e suonatore di citofoni (in cui fa le pernacchie prima di scappare) ma nella sua carriera vanta anche esperienze teatrali e cinematografiche poco riuscite, alcune brevi incursioni nel mimo e nel porno ne fanno un artista completo.
In preda ad una crisi di mezza età, senza i soldi per comprarsi la spider e troppo apatico per intraprendere la classica relazione con una ventenne, sceglie di prendersi una laurea in antropologia. Ma siccome a lezione si annoia infila le graphic novel dentro le sovracopertine dei libri di testo e alla fine, facendo confusione tra gli argomenti delle lezioni e quello che legge, inizia a scrivere cose strane che ancor più stranamente vengono pubblicate.