Davvero è stato un anno così difficile?

Mabel Morri | Play du jour |

La scatola è un cartonato elegante e di buona fattura.
È evidentemente pesante, un peso bello, un peso conosciuto, un peso che la memoria delle fibre del mio corpo non dimentica facilmente: quello di una cassa di libri.
Chi non ha una libreria corposa difficilmente capirà il senso e i muscoli sulle braccia di chi è abituato a spostare e sistemare volumi, spesso, per una ricerca, per una frase, per scappare dal mondo tuffandosi in un’avventura rocambolesca in un fumetto o in un romanzo.

Una volta Paolo Mieli, principalmente storico ma evidentemente i cui orizzonti ventagliano tra lo stanziare in tv commentando la qualunque e il presentare programmi storici, disse che il metodo di ricerca con l’avvento del computer e della digitalizzazione è profondamente cambiato. Una volta per una ricerca bisognava riempire la propria scrivania di libri, cercare frasi tra le pagine alle quali venivano fatto orecchie che i puristi dell’intonso detestano, perdersi tra biblioteche, archivi e librerie, impiegando tantissimo tempo per fare un buon lavoro.
Guardo la mia libreria e penso che, per quanto la casa sia smart e si viva nella tecnologia più avanzata, il mio studio sta veleggiando in epoche, in secoli, in decenni che sembrano settimane, in settimane che sembrano decenni, in ere geologiche, senza che la cosa mi sfiori.
Dentro, dentro la scatola di cui sopra, c’è un’agenda.
Mi è stata regalata un’agenda, insieme a tante altre cosine cartograficamente deliziose. Un’agenda, nel 2022. Bellissima naturalmente, le mie amiche hanno gusto, si capisce, una di quelle decorata con disegni che ricordano quegli illustratori tanto pop di oggi, che pubblicano negli States e per i grandi marchi fighi, dai colori caldi e dalle forme morbide. Che poi io adoro quel modo di illustrare, ci comprerei le magliette con quei disegni, qualunque merchandising possibile, eppure se disegnassi io a quel modo urlerei. Troppo urgente, in questa fase della carriera, la necessità di testimonianza e di chiarezza del segno, un segno egli stesso quasi precluso in un perimetro di china nera, quello che inizia e finisce alla sola pressione del pennino e dell’inchiostro che va a esaurirsi, un segno nel quale perdersi, nel quale esplorare, nel quale tentare le strade della continua ricerca. Prima duro, poi nella disciplina e nell’allenamento, più morbido, quasi a raggiungere vette orgasmiche, che passano nel tempo di un amen. È l’unico modo nel quale so fare questa ricerca, per altro, quel disegno pop dell’agenda non esclude assolutamente che anche quello sia frutto della stessa ricerca, dello stesso spirito di alzare l’asticella sempre più in su.
Dentro c’è anche un’agenda 2022, dicevo.
Eppure è appena finito il 2021, ho appena chiuso il diario di un anno difficile.
Difficile.
Davvero?
Davvero è stato così difficile?
Davvero il 2021 lo classifichiamo così nefastamente?

Torniamo un attimo indietro.
Un momento, non troppo.
Una delle ultime “figurine” che disegnavo nel dicembre 2020 – un anno che ci aveva insegnato parole e termini nuovi; oggetti che si inserivano prepotentemente nella nostra vita e che prima non lo erano stati mai; familiari lontani ognuno nelle proprie case in preda al lievito introvabile mentre si riscopriva l’arte del panificare; un Natale in lockdown che ci ha spezzato, spezzato dentro specie per chi inizia a guardare i propri cari invecchiare e a domandarsi se sono gli ultimi loro anni e a dirsi, a ripromettersi, che non dovrebbero essere così gli ultimi Natale – una delle ultime “figurine”, dicevo, era quella dell’annuncio dell’arrivo del vaccino. Quindi sì, un Natale in lockdown ma, accidenti!, con la speranza illusoria che saremmo tornati a vivere a grandi linee come prima. Ce la raccontiamo: quel “prima” – è dura da accettare – non esiste più, non tornerà più, esiste nelle foto che stampavamo sulla carta Kodak, nelle scatole di vecchie foto mentre svuoti gli armadi di un defunto, ne raccogli i libri e ne fai una cernita, scegli i bicchieri, quelli di una volta, dei quali avevi collezioni, quelli alti e lunghi per l’amaro, quelli bassi e a V per il vino da tavola, quelli da vodka, fino a che non apri l’armadietto dei liquori, grande must nelle case di chi era anzianotto. Non chiedetemi perché la Grappa del Coltivatore è ora, in bella mostra, su un vano della mia cucina. Mia nonna aveva la vetrinetta con le rotelle, un marchingegno malefico che a noi nipoti, poco avvezzi a queste pratiche alcoliche, costringeva a grand tour graduati tra cognac, armagnac e whisky torbati allo zio cugino di secondo grado del nonno che non vedevi mai e col quale però dovevi essere gentile o alla zia, sorella di chissà quale zia lontana nell’albero genealogico ma che però dovevi riconoscere come semplice zia al pari di quella che vedevi ogni giorno.
Un vaccino salvifico per tornare a una parvenza del “prima” perduto per sempre. Quindi il 2021 non poteva iniziare così male, era l’anno della grande vaccinazione di massa, nella parte di mondo che poteva permetterselo. E poi c’eravamo ancora tutti, più o meno, il lavoro contro ogni logica previsione aveva subito un’impennata notevole e il non viaggiare aveva persino creato credito bancario.
Cosa mai, dunque, avrebbe potuto rendere il 2021 un anno difficile?

Vediamolo al VAR.

I meme che almeno fino all’inizio dell’estate avevano deliziato gli appetiti italici erano il fermo immagine dei palloncini di cui uno francamente indimenticabile a forma fallica messi al posto del pubblico all’Ariston per Sanremo 2021, eccezionalmente svolto in marzo causa pandemia, e le espressioni del cantante svizzero uscito da un telefilm americano dei primi anni Novanta con un ciuffo di capelli degni del primissimo Brandon Walsh e quelle della novella Edith Piaf francese noiosa come un paté, entrambi all’Eurovision 2021 e in lizza per la vittoria finale. Vinceranno i vincitori di quello stesso Sanremo, i Måneskin, rock band uscita dal talent XFactor nella squadra di Manuel Agnelli, uno che non le manda a dire.
L’Italia torna a vincere l’Eurovison Song Contest dopo che, trent’anni prima, anno più anno meno, aveva trionfato, udite udite, Toto Cutugno con la canzone Insieme.
Non lo aveva vinto Mahmood con Soldi, ci sono riusciti i quattro ragazzetti di Roma.
Prendiamo e portiamo a casa.
Siamo al 23 maggio.
Arriva il caldo e la primavera porta con sé l’aspettativa degli eventi del 2020 chiaramente spostati causa Covid all’anno dopo.

Matteo Berrettini è insieme a Jannik Sinner il the new best thing del tennis italiano.
Un tennis azzurro che per chi non lo segue è fermo ad Adriano Panatta (per citare quello più famoso e che si ricordano tutti) con la polo rossa che, nel Cile del dittatore Pinochet, vince l’unica Coppa Davis mai vinta dell’Italia tennistica.
A Londra, al Circolo Queen’s Club, si disputa la ATP Cinch Championships, un torneo pre Wimbledon sempre giocato su erba e dopo il quale il Berrettini nazionale dirà «La mia vittoria più bella», baciando la coppa che tiene tra le mani in favore dei fotografi.
Siamo solo al 20 giugno. Prendiamo e portiamo a casa anche questa.

Luglio col bene che ti voglio.
La notizia arriva di striscio, nemmeno troppo condivisa, rimbalzata persino dai giornali di settore.
Il softball non è uno sport che ha molto seguito qui in Italia. Io me lo ricordo in qualche fumetto di Mitsuru Adachi e nella squadra che si allenava nell’impianto sportivo a Viserba di Rimini. Eppure l’Italia femminile nel Campionato Europeo fa un filotto di 11 vittorie su altrettante partite vincendo la finale contro l’Olanda.
È il 3 luglio.

Ogni tanto, molto di rado a dire il vero, tra qualche anziano istriano che ancora parla in italiano, specie se fai il carico alla Konoba Kod Zvaneta a Valdebek, a metà tra Banjole e Pola, bevendo rakija e continuando a versarne e me che bevo birra istriana, capita di sentire sibilante tra i denti, da quegli stessi anziani, a maggior ragione dopo una sanguinante guerra civile, dire che i serbi, per dirla con una frase diplomatica, non stanno tanto simpatici. Naturalmente gli epiteti che ho spesso sentito usare per definirli meriterebbero un capitolo a parte, ma ora qui non è importante.
L’Italia del basket maschile non sempre ha avuto cicli generazionali vincenti e spesso le sue partecipazioni sono salutate come eventi nei quali le delusioni saranno più delle gioie. Inoltre, sono lustri che qualunque vittoria sudata, qualunque gara combattuta rimbalzo su rimbalzo, qualunque secondo dei 24 che inesorabilmente scorre sul tabellone sarà vanificato dall’ennesima sconfitta sicura che la gara contro la Serbia costringerà.
Capirai se ci si gioca, a Belgrado, “a casa loro” – slogan leghista che è diventato purtroppo un modo volgare di dire – , l’ultimissima occasione per staccare il pass per i Giochi Olimpici, Olimpiadi alle quali l’Italia del basket manca dal lontano 2004.
E invece.
Serbia-Italia, 95-102.
Italia ai Giochi.

Iniziano gli Europei di calcio.
Il danese Christian Eriksen fa sobbalzare gli spettatori e i telespettatori e durante il derby scandinavo Danimarca-Finlandia si accascia a terra da solo a causa di un arresto cardiaco. Si teme il peggio, sono quaranta, quarantadue minuti di sgomento prima che la barella porti via il numero 10 danese ancora accerchiato dai compagni di squadra.
Più tardi, molto più tardi, la Federcalcio danese twitterà: “Eriksen è sveglio” facendo sospirare tutti.
Cristiano Ronaldo che a fine stagione lascia la Juventus si diletta a sbeffeggiare gli sponsor del torneo spostando una bottiglia di Coca-Cola prima della sua conferenza stampa facendo crollare il titolo in borsa del marchio della bibita gassata mentre Kylian Mbappe stampa sul palo il rigore decisivo per i quarti di finale contro la Svizzera.
L’Italia è allenata da Roberto Mancini il quale aveva già fatto un miracolo resuscitando il calcio azzurro spazzando via vecchie gestioni con un ricambio importante e qualificandosi agevolmente per quello stesso Europeo. Alle foto ufficiali la Nazionale si presenta con la divisa disegnata dal sempre elegante Giorgio Armani, giacca chiara con bottoni di tre quarti su maglietta e pantalone nero. I nostri ovviamente vengono massacrati dai raffinati stilisti dell’internet i quali evidentemente non solo non credono alle coincidenze ma nemmeno le ricordano: l’ultima volta che l’Italia ha vinto qualcosa dopo anni micidiali, per dirne una a caso contestualizzandola, calcioscommesse nello scemare degli anni di piombo e nel preludio delle stragi di mafia in Sicilia, indossava una giacca bianca. Era il 1982 e l’Italia tornava in piazza col tricolore invece che con le P38 per spararsi tra fascisti e comunisti.
L’Italia inizia a vincere.
L’Italia continua a vincere.
Siamo all’11 luglio, la coincidenza della giacca bianca e la ricorrenza della data si fa via via più che reale. Non succede, ma se succede.
Succede. A maggior ragione se l’ultimo Europeo vinto era quello del 1968 la cui semifinale era stata conquistata con la monetina lanciata da Facchetti negli spogliatoi.
L’Italia arriva in finale e contro un’Inghilterra che, giocando a Wembley, si sente già vittoriosa vince ai rigori laureandosi Campione d’Europa.

Wimbledon che tra tutti gli eventi sportivi che rischiavano di chiudere con penali e perdite esorbitanti, non ci ha pensato due volte: tutto chiuso e si rimanda al 2021, non foss’altro perché gli organizzatori sono stati tra gli unici a firmare un’assicurazione “causa pandemia” che chiunque aveva invece depennato dalle voci di risarcimento. Loro no, quindi il 2020 lo si salta allegramente e il 2021 c’è tutto il tempo di organizzare il torneo di bianco vestiti spendendo anche qualche sterlina in più per qualche protezione in più.
A un certo punto, Matteo Berrettini arriva in finale contro Novak Novax Djokovic. Trionfa il serbo, ma il risultato del tennista italiano prelude al classico non succede, ma se succede, anche se è già successo tantissimo ma all’11 luglio sembrano eventi scollegati tra loro.

Poi iniziano le Olimpiadi di Tokyo 2020.
Le discipline nelle quali si spera nelle medaglie sono sempre quelle, discipline come scherma, gente che spara, forse pallavolo, per altro i campioni che dominavano come una Josefa Idem hanno smesso da tempo.
Ma.
Arrivano medaglie sorprendenti dal taekwondo, dal canottaggio femminile per la prima volta nella storia, dalla vela, dall’inseguimento a squadre (ciclismo), dal karate, fino all’epica dell’atletica che raccoglie lo spirito stesso dei cinque cerchi. L’Italia salta e corre più in alto e più veloce di tutti, singolarmente, a squadre, con le gambe e senza, perché si svolgono anche le Paraolimpiadi e pure in quell’evento fioccano medaglie di ogni metallo in ogni sport, dal nuoto paralimpico alla handbike, dalla scherma all’atletica.
A fine agosto si celebra l’estate italiana più vincente di sempre.
Qualche mese dopo, una sportiva twitterà: Il 2021 non è ancora finito.
Aveva ragione.

Il 4 settembre l’Italia di volley femminile vince gli Europei contro la Serbia in Serbia, seguite un mese dopo dalla maschile contro la Slovenia.
In ottobre si continua con il ciclismo e in tutte le categorie: Sonny Colbrelli Campione Europeo in linea, Elisa Balsamo Mondiale in linea, Martina Fidanza oro nello scratch, Filippo Ganna, Simone Consonni, Liam Bertazzo, Francesco Lamon ai Mondiali di inseguimento, sempre Ganna alla crono ai Mondiali, Elia Viviani nella prova-lotteria a Roubaix, Robaix che è anche una grande classica francese il cui premio è un sampietrino e nella pioggia e nel fango alza le braccia di nuovo Colbrelli.
E ancora: la Nazionale femminile di Basket sorde Campione d’Europa, medaglie dalla ginnastica ritmica e dal nuoto a Kazan.
A un certo punto talmente a pancia piena di vittorie si facevano battute sul fatto che nel 2021 si sarebbe vinto anche a bocce.
Italia bocce maschile Campione del Mondo. Facendo l’en plein: Italia femminile Campione del Mondo.
Italia cricket, sarebbe da scriverlo a caratteri cubitali, vince per la seconda volta nella storia contro l’Inghilterra in Inghilterra.
Quando anche il football americano vince dopo 34 anni il Campionato Europeo, persino la Grappa del Coltivatore non basta più a digerire le vittorie azzurre del 2021.
“L’Equipe” è una rivista francese di rara raffinatezza. Mio cognato che abita a Nizza mi dice sempre che i francesi ci invidiano tutte le testate giornalistiche sportive che abbiamo qui in Italia e io, di rimando, che se ne avessimo solo una ma con la grazia dell’”Equipe” saremmo a posto. A metà estate titolava “Invincibles”, a fine anno “La Nostra Italia” raccogliendo l’annata straordinaria dello sport azzurro.

Me lo domando di nuovo.
Davvero è stato un anno così difficile?

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