Parlare di Shaun Tan è complicato. È un artista mostruoso, i disegni, i colori, le storie, non sai in cosa sia più bravo. Forse non ha senso considerare questi aspetti separatamente: Shaun Tan fa dei libri e, ogni volta, sono bellissimi e sorprendenti, diversi uno dall’altro, al punto da rendere difficile credere che siano opera della stessa persona. Quando in libreria scopro che è stato pubblicato un libro nuovo di Tan mi sembra che sia arrivato Natale, o una festa con i fuochi d’artificio: mi emoziono, lo tengo in mano per un attimo prima di sfogliarlo, traboccante di gioia, e mi domando «E questo, come sarà?» «Cosa mi racconterà stavolta?» Poi lo sfoglio tutto, in piedi. Poi lo compro. E a casa lo sfoglio di nuovo, e mi incanto sui dettagli, mi lascio risucchiare dalla storia, e poi c’è quel minuto di soddisfazione, io leggo sempre sdraiata: finito il libro, lo tengo sul petto e lo abbraccio. E penso «Di nuovo, ce l’hai fatta di nuovo, maledetto!». La storia si è già conquistata un posto nel mio immaginario, incastrandosi alla perfezione, clac. Per sempre.
Cicada, Cicala, è del 2018, e Tunuè l’ha tradotto e pubblicato in Italia immediatamente. Io l’ho scovato in una libreria per ragazzi che frequento spesso, e siccome non è un albo illustrato per bambini, pur avendone le dimensioni, posso solo immaginare che le ragazze della libreria lo tengano semplicemente perché piace anche a loro. E perché sanno che altri adulti come me si intrufolano tra i loro scaffali alla ricerca di tesori, raramente andandosene a mani vuote.
Cicala racconta una storia dura e spietata di solitudine, sfruttamento, violenza. Cicala, col suo vestito da impiegato degli anni Cinquanta del secolo scorso, non fa che lavorare, lavorare, maltrattato da tutti. Dorme in uno sgabuzzino. Le gambe, l’unica parte che vediamo degli umani che lavorano con lui e lo bullizzano, sono coperte da pantaloni in puro stile Mad Men, le scarpe con cui lo prendono a calci sono lucide, le calze di nylon e le scarpette delle colleghe che assistono evocano uffici in cui la gerarchia dei piani e degli incarichi, le finestre, le scrivanie, creano un codice comprensibile: ci sono i normali e gli underdog. Cicala è un underdog. I colori sono spettacolari: centinaia di verdi impastati per ottenere quel carapace duro ma vulnerabile, i bianchi e i neri non sono mai bianchi e neri, puoi rintracciare azzurri, gialli, rosa. Il risvolto di copertina e la prima facciata sono un’unica distesa grigia e cubista, ma a guardar bene una figurina alata si muove, piccola piccolissima, E dopo il frontespizio c’è un’altra immagine a due pagine, la giacca di Cicala, con le sue quattro maniche e le zampette nere, e un cartellino con un barcode e la sua foto. Le pieghe, la cupa dolcezza dei grigi e dei neri, il bianco che ricorda la tristezza della neve sporca. Tutto emana infelicità e prigionia.
E Cicala fa uno di quei lavori d’ufficio insensati, kafkiani, in un cubicolo. Per diciassette anni. Orribili giorni tutti uguali.
«Diciassette anni. Promozioni: niente.
Risorse Umane dice Cicala non umana.
Risorse: niente. Tok! Tok! Tok!»
E tu vuoi dirgli, al disegno: scappa! Salvati! Assomigli troppo alle nostre vite!
Il tempo in Cicala non scorre. Le tavole rappresentano una routine immodificabile, umiliante. Spezza il cuore. E ti fa pensare, piano piano, al tempo che anche tu trascorri, trasportato e impotente, tra le cose del mondo, gli impegni, la cattiveria. Impegnandoti, scambiando questa cosa per vita.
C’è una particella che si chiama Muone, e vive 0,0000022 secondi. Si crea quando i raggi cosmici si scontrano con l’atmosfera, e vengono rimbalzati nello spazio alla velocità della luce. Ma com’è allora che sulla terra ci sono i Muoni? In 0,0000022 secondi dovrebbero percorrere al massimo 700 metri, e l’impatto che li crea avviene a 30 chilometri dalla superficie terrestre. Ho letto questa cosa in uno dei miei libri sul Tempo, un argomento che mi affascina profondamente. In Cicala il tempo ha una consistenza particolare, sembra eterno perché non c’è scampo dalla bruttezza, dal disprezzo, dall’inutilità complessiva di tutto il lavoro.
«Mai finiscono lavoro umani.
Rimane sempre Cicala. Finisce lavoro.
Nessuno ringrazia Cicala.
Tok! Tok! Tok!»
Un lavoro che non si sa cosa sia, in un labirinto di cubicoli, con pile di fogli, timbri, scrivanie. È l’inferno. È l’assenza di significato. È una prigione.
Torniamo ai Muoni: li troviamo sulla Terra, dove in teoria non potrebbero arrivare. Ma più veloci ci si muove nello spazio più il tempo, che non è unico, rallenta. La durata della vita dei Muoni è 0,0000022 secondi in stato di quiete, ma quando sono lanciati verso la Terra la durata della loro vita aumenta di un cinquantesimo. E lo stesso avviene per lo spazio percorso, fino ad arrivare a circa 35 chilometri, e a farli rimbalzare sulla superficie del pianeta.
Un po’ come i Niomi di Terry Pratchett, che vivono per un tempo brevissimo che loro percepiscono come molto più lungo, perché il nostro tempo scorre più lento del loro.
Nelle prime dieci tavole di Cicala non c’è tempo. C’è solo lavoro, e dolore. Raccontato con distacco alieno: Tok! Tok! Tok! Non il distacco dell’assenza di sentimenti, ma quello della diversità.
»Diciassette anni. Cicala va in pensione.
Festa: no. Stretta di mano: no.
Libera scrivania Capo dice.
Tok! Tok! Tok!»
E quei diciassette anni sono durati poche pagine, ma sembrano mille. Con la compressione dei monumenti nelle palle di vetro con la neve, Tan ci ha fatto assistere frustrati e addolorati all’intera vita di Cicala. Siccome non va da nessuna parte, il tempo passa velocissimo. La storia è già finita, pensi. E siccome Cicala non ha più niente, lavoro, soldi, nemmeno lo sgabuzzino per riposare, lo guardi salire le scale cupe e escheriane che portano al tetto dell’edificio, e pensi «Ecco. Che altra via d’uscita c’è?»
In una sinfonia oceano di grigi trascorrono, mute, le ultime pagine, tutte doppie, grandissime. L’unico colore è la testolina verde di Cicala. Intorno, nebbia. Il Nulla. The Void.
Sono tanti, diciassette anni. Potrebbero essere pieni di cose, persone, sorprese, avvenimenti. Invece siamo già alla fine del libro?
No.
No, grazie Shaun Tan.
Sulla schiena di Cicala si apre una fessura, sottile, di un rosso che riverbera impercettibilmente sull’universo vuoto che lo circonda, sull’orlo di quel tetto. Spacca la pelle verde, spacca il completo doppiopetto grigio, e tu giri pagina col cuore in gola e sì! Sì! Sì!
Dalla forma ingobbita dell’insetto impiegato in una Corporation spietata si libera un altro Cicala! Lasciandosi dietro un involucro inutile e immobile una cicala scarlatta con ali trasparenti si libra fino quasi a superare il bordo della pagina. E l’immagine successiva è un cielo grigio e muto, pieno di insetti rossi e luccicanti che volano, come costellazioni di fiammelle.
Quanto vive una cicala? Fino alla fine dell’estate. Ma sottoterra, in forma di larva, vive 17 anni, un bel numero primo che le facilita la sopravvivenza, sfasandola rispetto alla vita dei predatori.
Diciassette anni in quell’ufficio-universo ctonio e poi solo un pugno di mesi, d’estate?
«Cicale tutte a foresta tornano.
A volte pensano a Umani.
A smettere di ridere non riescono.»
Quei mesi estivi, come per i Muoni e i Niomi, valgono più di 17 anni sottoterra, o in un palazzo di cemento insieme a umani più bestiali degli animali. La felicità che trabocca dalle tavole di Shaun Tan, che terminano proprio con l’ultimo risvolto di copertina, dipinto nei colori verdi e arancio di un luogo misterioso e incantato, ti porta a riconsiderare tutto il libro.
A riconsiderare il tempo, e il dolore che porta con sé. La vita, l’universo e tutto quanto sono molto di più di quei diciassette anni. Sono molto di più della nostra prigione interiore. Si estendono in una dimensione ulteriore, quella del significato e della felicità.
E quanto dura la felicità? Non in secondi, in assoluto?
«Silenzio:
graffia la pietra
la voce delle cicale>>
Tan chiude questo libro magico, con grazia, citando Matsuo Basho.
Nel mio cuore, piccola, una cicala si libera dal suo guscio.
Vive in un condominio affollato e rumoroso. Le sue coinquiline e i suoi coinquilini hanno fatto di tutto nella vita: bibliotecarie, animatrici culturali, speaker alla radio, cantanti, mogli, mariti, amanti, complici… Ora ascolta tutte e tutti e sembra abbia visto, letto e goduto di ogni cosa. Me lei sa che quell’obiettivo non è stato ancora raggiunto e che si trova alla deriva in un punto indeterminato del processo.