Un viaggio nella memoria del fumetto

Paolo Interdonato | Una pietra sopra |

Originariamente pubblicato su “Fumettologica” il 21 Dicembre 2016.

La memoria è una macchina del tempo fallace. Sa andare solo in una direzione e ti riporta in posti e momenti incoerenti. Si inciampa facilmente, sulle strade della memoria: sono piene di buche. Le fonti orali sono preziose e inaffidabili: le puoi usare ma non puoi poggiare il ponte della storia solo su quelle. Un individuo che si racconta dichiara di essere un testimone, uno che ha vissuto, che ha memoria o che può riferire le altrui memorie perché le ha raccolte personalmente. Di prima mano, si dice, ma la memoria, prima di essere consegnata ad altri, viene sempre usata un po’: ci arriva stropicciata e malmessa. Usare le fonti orali significa, come spiegava Mino Milani sulle pagine del “Corriere dei Ragazzi”, dare la parola alla giuria e processare la storia e, questa volta è Foscolo, «que’ giorni ch’io trassi in grembo alla mia solitudine».

La memoria è un fatto privato che, quando diventa pubblico e scende in strada, ha bisogno di verifiche e confronti.

Per esempio, il 3 ottobre del 1988 ero nervoso e accaldato. Avevo preso un treno mattutino delle Ferrovie Nord gremito di umani sudore e alitosi. Poi, da piazza Cadorna (la stessa in cui Angela Giussani aveva avuto l’idea di Diabolik), ero montato su una carrozza della linea verde fino in piazza Udine. Indeciso e spaventato avevo puntato il numero civico 4 di via Staro e mi ero infilato in una palazzina di tre piani che non vedo da venticinque anni e che “Street view” di Google mi mostra identica a come la ricordo. Lì mi aveva accolto Claudia, la receptionist che allora – erano tempi più ingenui o più onesti – dichiarava di essere la centralinista. Era un lunedì. Il giorno dopo avrei compiuto vent’anni. Era il mio primo giorno di lavoro e, dopo aver varcato quella soglia, la mia vita è stata scandita dai ritmi dell’adultità.

Quando penso alle età della formazione, mi figuro l’immagine romantica di un giovane individuo che ozia, gioca, guarda, legge e fa tutte queste cose senza risparmiarsi. Insomma uno che perde tempo proprio perché il tempo sembra una risorsa illimitata.

Ah! Se solo ci fosse data la possibilità di rivivere quei momenti con la consapevolezza che abbiamo maturato oggi.

Come dici? Faccio discorsi da anziano? Hmm… Ok, hai ragione: è proprio così. Mostrami almeno il rispetto che è dovuto a chi porta in giro la mia veneranda età. Noi la chiamiamo saggezza.

Un giovane è un nodo di paure che di tutto quel tempo non sa bene cosa farsene. E, se mi infilo nei vestiti della mia memoria, scopro che l’ozio, il tempo liberato e le letture interminabili che rubano ore al sonno sono arrivate dopo. Da ragazzo ero troppo impegnato a soffrire e a struggermi. Proprio come facevi (o come fai) tu.

L’adultità è arrivata con il lavoro. Da quel momento ho anche ottenuto la tanto sospirata indipendenza economica e ho iniziato a comprare tutti i libri e, soprattutto, i fumetti che desideravo. La città in cui lavoro (since 1988) si chiama Milano e, siccome sono cresciuto nella provincia profonda, quel posto è da sempre lo scrigno che custodisce tutti gli oggetti del mio desiderio. Sono un vizioso piccolo piccolo e mi bastano, come ti dicevo, i libri e, soprattutto, i fumetti. Milano significava (e significa) librerie, grandi e piccole, specializzate o generaliste, indipendenti o di catena, a prezzo pieno o remainders, … Insomma, una manna.

Oggi i libri e, soprattutto, i fumetti li compro in rete e tutto è a portata di click. Ai miei tempi (già!) c’era da sdrumare e procurarsi la carta costava dura fatica. I fumetti statunitensi, poi, li ordinavi sul catalogo, costavano un rene (c’era chi parlava del famigerato “cambio librario”) e arrivavano una volta su due mettendoci così tanto tempo che quando te li trovavi per le mani non li riconoscevi come tuoi. Oggi “Previews”, il catalogo dei fumetti statunitensi, non lo sfoglia più nessuno (forse solo Paul Gravett); quella volta era obbligatorio. Carpe diem: come Orazio, riletto maluccio da Peter Weir, dovevi cogliere l’attimo fuggente e, se volevi un libro, dovevi dirlo al tuo libraio entro l’ultimo giorno valido per gli ordini del mese o non l’avresti mai più incontrato. Con i periodici avevi qualche speranza in più.

Il primo “Comics Journal” che ho comprato è il 126, datato gennaio 1989. Sono stato fortunato: in copertina c’è un disegno dei fratelli Hernandez che calca e dileggia quello con cui, nel settembre del 1982, si apriva la corsa di “Love & Rockets”. Per ripensare a quella lettura, devo lottare nuovamente con la mia memoria fallace. Le sensazioni provate non le ricordo più ma so che, da quel momento, non ne ho più perso un numero. (Non è vero. Qualche volta il negozio in cui mi rifornivo è riuscito a farmi perdere anche il Journal. La menzogna che ti ho appena rifilato è dettata dall’esigenza di enfasi e mi suggerisce un’avvertenza: usando le fonti orali, anche quando la memoria è buona, bisogna diffidare del narratore che è sempre un bugiardo, perché sempre ha uno scopo.)

Adesso ti starai chiedendo le ragioni di questa manfrina sulla memoria. È presto detto. Qualche giorno fa Fantagraphics ha pubblicato le proprie memorie. Lo ha fatto usando il formato libro: We Told You So: Comics As Art di Tom Spurgeon (con Michael Dean) è un volume di settecento pagine ricche di immagini che scorrono con la medesima struttura delle lunghissime interviste, editate poco e niente, del “Comics Journal”. Quelle interviste sono documenti straordinari per ricostruire la storia del fumetto non solo statunitense.

Gary Groth, uno dei fondatori di Fantagraphics (e dalle foto pubblicate sul volume, si capisce che è stato l’unico in redazione ad avere avuto una vita sessuale soddisfacente), dice che l’ispirazione per quelle interviste è venuta da quelle ospitate da “Playboy” e, con il consueto snobismo che tanto amo, aggiunge che gli dispiace di non poter affermare che l’idea non sia stata scatenata dalla lettura di “Paris Review”.

Le interviste di “Playboy” sono una meravigliosa fonte di accesso alla cultura del Ventesimo secolo e giocano in un campionato completamente diverso da quello in cui agisce il “Comics Journal”: si tratta di pezzi di grande giornalismo, scritti con perizia, editati, trasformati in narrazione e resi accessibili a un pubblico vastissimo. Sono state elaborate così tanto da professionisti della carta stampata da perdere il loro valore di fonti orali. Le interviste del “Comics Journal” sono opera di dilettanti che migliorano progressivamente nel tempo e, pur ripulendosi da molte ingenuità, non rinunciano mai alla ridondanza, alla piacevolezza delle amenità, al cazzeggio e spesso all’invettiva. Insomma, riproducono con grande fedeltà, il suono delle parole dette e il silenzio di quelle non dette. Quelle parole si infilano come un ago nel tessuto bucato della memoria.

Leggendo le tantissime interviste pubblicate sui 302 numeri del “Journal” si può ricostruire una storia orale – e colloquiale – del fumetto. Con We Told You So si accede al racconto conviviale dei quarant’anni di vita di una delle migliori case editrici che il fumetto abbia mai avuto. Il fatto che la vita della casa editrice e del giornale si siano sovrapposte per un periodo molto lungo non può essere ignorato.

L’elenco degli autori che Fantagraphics ha pubblicato in quarant’anni occupa le ultime 50 pagine del volume. Cinquanta! E sono nomi importanti e necessari. Cito a memoria: Harvey Kurtzman, Robert Crumb, Jules Feiffer, Lewis Trondheim, Charles M. Schulz, Peter Bagge, Daniel Clowes, Joe Sacco, i fratelli Hernandez, Vaughn Bode, Arnold Roth, Guido Crepax, Jim Woodring, Tony Millionaire, Drew Friedman, Ellen Forney, Killofer, David B., Charles Burns, Alberto Breccia, Walt Kelly, Carl Barks, Floyd Gottfredson, Chris Ware, Barry Winsor Smith, Stan Sakai, Jason, Igort, Wallace Wood, Bill Elder, Frank Frazetta, … Se si producesse l’elenco degli autori che hanno raccontato la propria vita e il proprio lavoro al Journal, non riusciremmo a snocciolare tutti quei nomi entro la fine dell’anno.

Ora, una parte dei protagonisti di quella storia non c’è più. Quelli che a me mancano di più sono Kim Thompson e il “Comics Journal”. Per resistere alla tristezza mi attacco ai ricordi che, per mia fortuna, trovano solido appiglio nella carta che mi infittisce casa.

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