Blood Visions: Una storia d’amore

Arabella Strange | Rorschach |

La prima volta che mi sono imbattuta in Jay Reatard è stato quando in radio, tra una trasmissione e l’altra, ho preso in mano per caso il numero 2 della rivista “Sottoterra” – rockzine morta suicida dopo dodici magnifici numeri. Tre emiliani fanatici (Luca Frazzi, Lorenzo Belli, Luca Orzi) che scrivevano articoli lunghi e approfonditi, come ne trovi su “Internazionale” sulla microimprenditoria in Casamance, per raccontare di band, dischi, roba vecchia, roba nuova. Di solito le recensioni dei dischi mi annoiano ferocemente, ma Jean Luc Stote, il mio Saggio di riferimento, mi ha detto «Dai un’occhiata, secondo me ti piace» e io ho diligentemente comprato la rivista perché bisogna sempre sostenere le autoproduzioni e poi la copertina mi aveva incollato lo sguardo per un po’, c’era uno massiccio, in mutande, coperto di spruzzi di sangue, o granatina, la faccia rigida e un solo occhio visibile, fisso, dilatato, pungeva come un chiodo arrugginito. Sotto la foto c’era scritto “Jay Reatard, the lost interview”. Era il 2015. In metropolitana ho letto l’articolo, nove pagine, e dalle prime battute si capiva che il tipo era morto male, ma mi piaceva il nome, mi rimandava a un’immagine di disadattamento che fa sempre presa sul mio immaginario. Mutande zuppe, sangue dappertutto, e il titolo del disco, Blood Visions. Più leggevo più capivo che il tipo era fuori, ma proprio fuori, durante un concerto la fidanzata aveva staccato il cavo della tastiera e gliel’aveva tirata addosso, e lui le era volato sopra e l’aveva presa a pugni nella schiena, ho pensato che doveva essere una testa di cazzo. Poi arrivata a casa di un mio amico batterista, abbiamo ordinato due pizze e io ho frugato in rete per scaricare i pezzi del disco. Una scaletta lunghissima, quindici pezzi per ventinove minuti e nove secondi. È partita la prima canzone, “Blood Visions”. Le bacchette sul bordo, secche, velocissime, «Blood visions / It’ s what they wanna give me / Blood visions / It’ s what they wanna give me / Blood visions / Oh / These things will change!». Siamo rimasti a bocca aperta, con la fetta di pizza in mano, era un susseguirsi fulminante di canzoni brevissime, più veloci e strazianti del punk, con un dolore e una follia che traboccavano nelle nostre orecchie, «I can’t see your face / cause I’m a looking at you / my shadow, my shadow, my shadow is stuck, it’s like the darkness», io e il batterista ci siamo guardati come quando si scopre qualcosa di magnifico, in momento incredibile in cui ti imbatti in qualcosa di stupefacente e non sei solo, la folgorazione è condivisa. La realtà della serata, di noi due con la pizza in mano, si strappava col rumore della stoffa delle lenzuola, dopo la prima volta lo abbiamo riascoltato, e io l’ho riascoltato di nuovo tornando a casa. La bellezza prende forme strane. Qualche mese dopo ero ricoverata in una comunità a basso livello di sicurezza, e gli MP3 di quel disco erano l’unica cosa, insieme a un quaderno grande e a dei pastelli, che mi ero portata. Luglio, un caldo atroce anche di notte, i letti avevano materassi di materiale non infiammabile, parallelepipedi di gommapiuma accostati, coperti da un lenzuolo sottile su cui giacevo nelle notti bollenti in una pozza di sudore, aspettando che i farmaci facessero effetto – non facevano effetto -, aspettando le prime luci dell’alba per infilarmi le scarpe da corsa e mettere gli auricolari e correre intorno all’edificio. Correvo lentissima, rimbambita, l’erba era verde davanti, dietro aghi di pino, il muro di cinta, a volte scorgevo un’upupa nei cespugli fitti, nelle orecchie mi pulsavano le batterie di Blood visions, sempre quegli stessi quindici MP3, Jay Reatard ha scritto e registrato tutte le tracce, c’è solo Alix Brown con un basso e una seconda voce in un pezzo, e io volevo sentire solo quelle batterie da marcetta garage demenziale, quei riff allegri, quei cantati melodici e strazianti «That’s the way things go / All people’s changes / they grow / I hide in this room / Let’s hope it’s not wasted / Oh, it’s such a shame». È impossibile correre senza seguire il ritmo della musica che ascolti, dopo un po’ il mio cuore, il respiro, tutto andava a tempo con Jey Reatard: «Oh no no no / they wont get me».

Sono passati anni, è arrivata la pandemia e per la prima volta ho comprato cose on line. La prima cosa che ho comprato è stato il cd di Blood Visions, l’ho addirittura comprato due volte per sbaglio, ma non mi è dispiaciuto. Una copia sta in macchina, l’altra in casa, è quella che sto ascoltando adesso. Quando mi piace un disco lo ascolto per settimane, a volte mesi, incessantemente, le immagini di sangue di Jay Reatard mi seguono e mi precedono, con furore gioia dolore estasi o, più semplicemente, come direbbe il mio psichiatra, in modo ipomaniacale. Lo ascolto da tre mesi, e tanta concentrazione, un focus così elevato fanno sì che il disco smetta di essere un disco e cominci a essere il mio cervello che canta. Non riesco più a fare distinzione tra la musica e le mie onde cerebrali. Ogni singolo pezzo è una piccola fornace nucleare, un prisma che spacca la luce della città, con le sue persone in mascherine e guanti, le copertine dei libri che accumulo sul sedile di destra della mia automobile, la mia faccia nello specchietto. E io non vedo più la realtà, come direbbe Anna Oxa, vedo solo, sento solo, parole musica ritmo la batteria il basso la voce. Le visioni di sangue di Jay Reatard per qualche mese trasfigureranno il mondo e non saprò mai se quello che vedo è quello che vedeva lui, non mi interessa nemmeno, «Death is forming, forming death, death is calling / death is forming / forming death», io sorrido come un’idiota, esisto in un presente imperfetto che pulsa come un cuore gigantesco. Ci si può innamorare di un disco. Il problema, forse, è quando hai la sensazione che un disco si innamori di te e non ti molli più.

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