HP e il libro dei morti

Francesco Pelosi | Vacanze di Quasi |

Articolo pubblicato originariamente su Fumo di China n.261 dell’aprile 2017, nella pagina curata da Lo Spazio Bianco.

Rapito da un mondo che già non esisteva più quando cominciò a raccontarlo, Hugo Pratt ha colmato la sua opera di ricordi, miti, suggestioni malinconiche e anarchiche affermazioni d’esistenza.

Com’è noto la sua vita è stata costellata dalla passione per i viaggi, quel «periplo del mondo» che Elémire Zolla invitava a perseguire attraverso i «chiostri sonori» suggeriti da Marius Schneider nel suo Pietre che cantano, e che Pratt sembrava invece aver individuato nella ricerca dei luoghi reali della fantasia e dei tumuli dei suoi anfitrioni.

Come afferma lui stesso nel libro di Dominique Petitfaux, Il desiderio di essere inutile (Lizard, 1996):

«Quando mi reco su una tomba è per rendere omaggio a qualcuno che per me è stato importante, è una sorta di pellegrinaggio, un pellegrinaggio laico. Ho un grosso debito nei confronti delle persone che nella loro vita, con la loro opera, hanno contribuito a rendermi come sono oggi.»

Così, come si può rilevare una stretta connessione fra i viaggi nel mondo reale compiuti da Hugo Pratt e quelli cartacei di Corto Maltese, il pellegrinaggio sulle tombe dei “grandi” sembra essere una sorta di magico passepartout che dai domini della realtà porta direttamente a quelli fantastici, in un medesimo movimento che racchiude in sé l’inseguimento e la fuga.

Sempre nel libro di Petitfaux, Pratt afferma: «Sono il testimone di un’epoca rivoluzionaria, che racconta delle storie popolandole delle proprie esperienze, dei propri ricordi, delle favole che ha sentito quand’era bambino. La mia vita è sempre più distaccata dal presente.» Lo stesso dice di lui la figlia Silvina Pratt nel suo Con Hugo (Marsilio, 2008): «È proprio dal mondo reale che mio padre ha cercato di fuggire per tutta la vita – non si diventa un narratore di storie senza pagarne lo scotto».
Rapito e sospeso fra quei labirinti narrativi tanto cari a Borges, Pratt ebbe però la forza o forse l’innata esigenza di farne opera di vita, prima di soccombervi, creando una vasta cartografia di rimandi – quasi una guida – che testimoniasse le sue esplorazioni sul confine metafisico fra sogno e realtà.

All’inizio di Corte Sconta detta Arcana e alla fine di Favola di Venezia, il lettore ritrova la stessa didascalia a proposito di tre luoghi magici della Serenissima e di tre porte attraverso le quali si può entrare in «altri mondi e altre storie», e in molta letteratura fantastica le tombe sono le “porte”, i passaggi, verso mondi lontani e occulti. L’insaziabile fame di vita di Hugo Pratt (di cibo, bevute, donne, feste) ha in questa tensione al mondo impalpabile dei morti e di ciò che non è più, un potente contraltare.

Attraversando questo sentimento magico dell’esistenza, giocando a infrangere i confini fra l’autore e l’opera, possiamo allora notare che l’ultima avventura di Corto Maltese lo vede visitare il continente perduto di Mu, il sepolcro di un intero popolo, già ricercato dal gentiluomo di fortuna nei primi episodi a lui dedicati (Suite Caribeana); tomba però solo “sfiorata” dal suo autore, che riuscì a visitare l’Isola di Pasqua (una delle porte ideali per Mu) piuttosto tardi, nel 1988.

Allo stesso modo Pratt vide da lontano e molto tardi anche il tumulo di Robert Louis Stevenson, sorvolando con un aereo le isole Samoa nel 1992: l’appuntamento con tusitala, il narratore (come i polinesiani avevano soprannominato Stevenson), era per lui come un impegno da onorare, in quanto, come viene spesso ricordato, L’isola del tesoro fu l’ultimo libro regalatogli dal padre, con la promessa che un giorno anche lui avrebbe trovato la sua Treasure Island.

Ed ecco che allora nel 1969 è ad Hara, in Etiopia, su una tomba senza nome che sarebbe proprio quella in cui fu sepolto Rolando Pratt, suo padre, morto nel 1942 (terra rivisitata poi molte volte tramite i suoi fumetti, da Le Etiopiche a Gli scorpioni del deserto) o nel 1983 in Canada, sulla tomba di Simon Girty, bianco rinnegato da lui rappresentato in Wheeling e personaggio a cui, ancor più che a Corto Maltese, Pratt diede le sue fattezze.

Ma il pellegrinaggio più strano fu per lui il pellegrinaggio inverso, quello dove «l’esperienza della rosa» ricercata dagli alchimisti, venne a cercarlo. Gli accadde due volte: una in Irlanda nel 1971, quando persone sconosciute gli si rivolgevano dicendogli: «Lei è venuto per Yeats» (anche se poi la tomba del poeta la visiterà solo nel 1983 in maniera ben più profana, al fianco di una troupe televisiva), e l’altra in Argentina, durante un viaggio alla ricerca della tomba di Butch Cassidy e Sundance Kid (poi protagonisti di Tango), quando sullo steccato della sua casa in affitto trovò una rosa infilata fra le assi. Un vero mistero, a suo dire. Che fosse proprio quella rosa che apparve a Corto Maltese dopo aver bevuto alla fonte dell’eterna giovinezza ne Le Elvetiche?

Di certo Pratt è stato uno di quegli autori che hanno consacrato gran parte della vita alla propria opera e, oltre che massone, si può forse dire di lui che fu anche alchimista: seppe infatti mutare ogni esperienza nell’oro delle sue chine e dei suoi acquerelli, e ogni persona che gli si fece incontro divenne nel crogiuolo materia rara della sua prosa.

Disse, sempre a Petitfaux: «Il mio lavoro è più importante di tutte le donne che ho conosciuto, più importante della storia della mia vita, non foss’altro che per il fatto che racchiude, sintetizzata e sublimata, l’intera mia esperienza. E il lavoro è in fin dei conti quanto di noi rimane.»

Verrebbe da aggiungere: il viaggio che offriamo a chi resta.

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