Il cervello in una vasca

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel)


Siamo distratti e spaventati. Uscire in strada non ci dà piacere. La lunga reclusione cui il lockdown ci ha costretti ci ha riempiti di paura. Non è una scelta, consapevole e razionale, per proteggere la nostra salute e garantire la sopravvivenza di una specie, di cui per altro ci importa molto poco. È una paura profonda che ci avviluppa come un sudario, tutte le volte che mettiamo piede in strada.
La ritualità dell’uscita, che ci rendeva veloci negli spostamenti, si è dilatata. Una volta era facile e tra la decisione d’imboccare la porta e il rumore della serratura passava un istante. Adesso è tutto un susseguirsi di controlli. Ce ne sono alcuni completamente nuovi che riguardano la mascherina, i guanti e il disinfettante. Ma perdiamo molto tempo anche a fare cose che prima erano istinto: cercare il telefono, il portafogli, le chiavi dell’auto, quelle di casa, gli occhiali… La lunga segregazione domestica ci ha rallentati e temiamo che questa sia una trasformazione difficilmente reversibile.
Appena fuori, in via Campo di Marte, monta il disagio. La vita, che un tempo strappavamo a morsi, diventa amara e la vogliamo tenere in bocca il meno possibile. Ci guardiamo attorno con sospetto. I corpi che si avvicinano ai nostri non accendono il desiderio. Quelle mascherine ci suggeriscono distanza, la loro eventuale e sporadica assenza ci induce preoccupazione. Il solo desiderio che sentiamo è quello di ritornare nel nostro guscio. Rientriamo a casa e cerchiamo di lenire il dolore che sentiamo nella carne.

Lavarsi le mani. A lungo. Seguendo le istruzioni che abbiamo ricevuto. I palmi, i dorsi, le dita, anche i pollici, tutti gli interstizi, le unghie. Sapone e acqua calda. E asciugamani puliti. Cambiati spesso. Mentre siamo in bagno guardiamo la vasca, con la sua forma da carapace rovesciato, cosi protettiva e avvolgente.
Ci sfiliamo i vestiti e ci infiliamo nel guscio perlaceo mentre l’acqua calda scorre dal rubinetto. Saggiamo la temperatura col polpaccio e la regoliamo. Quando ci sdraiamo nella vasca, il freddo della resina ci procura un brivido. Poi chiudiamo gli occhi e pensiamo solo al piacere che ci viene dall’acqua che sale lenta. Lo scroscio, costante, ci culla come se fossimo immersi nel liquido amniotico. Il mondo là fuori non ci spaventa più. Il bagno caldo in estate è un piacere difficile da spiegare. Quando la nostra temperatura si regola, smettiamo di sudare e entriamo in uno stato ipnagogico. Il corpo smette di essere corpo. Diventa pensiero. Un cervello immerso in una vasca.

Com’era la canzone che cantavano Menmon e i Palotini in Ubu Cornuto? Parlava di ghigliottina… Di decervellamento… Non la ricordiamo.

Una donna.
Bellissima.
Una donna che indossi un tubino nero e voglia essere desiderata, proprio come in quell’articolo che Françoise Sagan scrisse per “Vogue” e che oggi viene citato a sproposito, stralciato e ridotto ad aforisma, da giornalisti, speaker radiofonici, psichiatri e draghi di twitter, gente che non ha mai preso a morsi la vita. Neanche quando si poteva.
Una donna bellissima che usa tutte le armi della seduzione per poter avvicinare il nostro corpo in ammollo.
Brutto e invivibile, mostruoso, inavvicinabile, chiuso in un carapace a forma di vasca.
Una donna che ci confida un segreto, umettando il nostro orgoglio.
Noi, che non riusciamo a stare in mezzo agli altri, improvvisamente siamo amici del popolo.
E allora la nostra guardia si abbassa e una lama ci spacca il cuore.
Una lama.

Ci svegliamo. Tranquilli. Non abbiamo più caldo e non abbiamo più paura. Ci asciughiamo sommariamente e indossiamo gli abiti che avevamo buttato in terra davanti alla vasca. Infiliamo la porta e usciamo, dimenticando tutto. E, finalmente, passeggiando fischiettiamo quella canzone che, improvvisamente, ci è tornata in mente.

«Per molto tempo fui operaio ebanista
In via Campo di Marte, parrocchia d’Ognissanti;
La mia sposa faceva la modista,
E in questo modo si tirava avanti.
Quando la domenica s’annunciava serena
Sfoggiavamo i vestiti della festa,
Andavamo a veder decervellare
In via dell’Echaudé, tanto per fare.
Vedete, vedete la macchina girare,
Vedete, vedete il cervello schizzare,
Vedete, vedete il riccone tremare…
Urrà! Corna in culo! Viva il Padre Ubu!»

Ti è piaciuto? Condividi questo articolo con qualcun* a cui vuoi bene:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

(Quasi)