Alè Tran Tran

Mabel Morri | Play du jour |

Bisognerebbe scomodare Giordano Bruno e la sua opera De umbris idearum (Le ombre delle idee) che a pagina 72 dell’edizione BUR del 2008 dice che «quest’ombra, pur essendo verità, deriva tuttavia dalla verità e conduce alla verità; di conseguenza, non devi credere che in esso sia insito l’errore, ma che vi sia il nascondiglio del vero.»

Il Bello e il Vero sono due tematiche da sempre presenti nell’arte.
Definite da Platone insieme a un terzo genere supremo di valori, il Bene, sono rimaste pressoché invariate come canoni almeno fino al ‘700.
Ne hanno ovviamente discusso in molti, Giorgio Vasari per esempio, le cui opere si avvicinano a una sacralità quasi biblica attraversando una serie infinita di correnti artistiche, passando dal sublime e dal pittoresco che finalmente scardinano il concetto platonico fino all’inizio del secolo scorso, arrivando infine ai giorni nostri.
Analizzando il rapporto tra ciò che è umano e ciò che è divino, nell’ordine stabilito dell’universo in cui ogni cosa è connessa ad altre, le idee sono la base di esso, le ombre delle idee sono la proiezione della mente umana, la memoria è la struttura che unisce immagini a concetti «e quello che è vero è unico e primo».

Se è vero ciò che è vero è dunque unico, unico è senza dubbio Alè Tran Tran, scritto da Antonio Tettamanti e disegnato da Lorenzo Mattotti.
Non era pratica comune che un artista si abbassasse a disegnare di calcio. Gino Pallotti spaziava dalle testate Bonelli alla collaborazione con il “Guerin Sportivo”, ma il “GS” era rivista di politica calcistica e il disegno paradossalmente era valutato molto più una volta di oggi e ben si abbinava alla satira per uno sport considerato popolano, basso, non sicuramente per palati fini. Il giornalismo sportivo aveva una narrazione che stava nascendo in quegli anni, non più una mera cronologia di tiri e parate e non certo lo storytelling, come viene chiamato oggi, col quale si cimentano più o meno autorevoli firme. Quella narrazione lì era prerogativa dell’onnipotente Brera e di pochi altri eletti, e il modo di intendere il calcio era quello delle pacche cameratesche sulle spalle, di amicizie nei corridoi, roba maschia. Tanto che per Brera una donna che giocava a pallone era pura eresia. Per cui mischiare quel fango lì con i milioni di Rivera passando per il dialetto di Nereo Rocco (la cui moglie in una famosa intervista in bianco e nero è semplice cameriera e riempie continuamente i bicchieri di rosso friulano mentre gli uomini fumano, bevono e parlano di tattica), l’intellettuale Mattotti che grattava la carta con la china in un bianco e nero muñoziano (ahi ahi, lui che è interista) stonava un po’.
Giusto “Linus”, il grande, glorioso Linus nato alla Milano Libri pubblicò le storie brevi di Alè Tran Tran alla fine degli anni settanta, quando Mattotti era «un giovane di belle speranze con qualche problema a sbarcare il lunario» (dall’editoriale di Daniele Brolli all’edizione in albetti edita da Phoenix).

Campo dei Fiori è una piazza bellissima.
Ogni giorno si svolge il mercato rionale.
Tra le bancarelle colorate di frutta e verdura, tra gente che passeggia e fa la spesa, tra i tantissimi turisti che si fermano nei bar e nelle trattorie, una statua raffigurante un uomo coperto con una lunga veste da monaco, curvo sulle spalle ma in posizione eretta con le mani incrociate su un libro, sormonta la placida e frenetica piazza. Il volto è scuro, è coperto dal cappuccio, non sorride e lancia uno sguardo di sfida nella direzione del Vaticano.
A scuola dalle suore lo chiamavano l’eretico, nel tempo, nei corridoi del ginnasio, a noi studenti famelici, insegnanti decisamente laici avrebbero donato la vera denominazione di filosofo e libero pensatore. Un filosofo scomodo, sostenitore delle verità scientifiche contro quelle assolute della fede, in un’epoca nella quale la Chiesa era il verbo e professava il vero, e la verità.
A Campo dei Fiori, all’ombra di quella statua che raffigura Giordano Bruno, probabilmente avrei letto il fumetto.

All’ombra delle idee che sono ciò che genera la mente umana, offuscandomi forse il giudizio critico. È necessario poi averne uno quando tra le mani si ha un capolavoro? E, anche qui, è un capolavoro per me perché entra in curve della memoria che organizza il caos ma dentro di me ne provoca un altro, quello del Sublime, quello del migliorarmi sempre come disegnatrice.
Ma ora questa è un’altra storia.
È lo sguardo, lo stesso diretto e severo di Bruno verso il Vaticano. Forse un po’ più romantico per me che i campi di fango li ho calcati.

Ha il sapore di quel calcio lì, umano e divino, quello dei commendatori e degli avvocati, del campione centravanti dei quartieri popolari che si fida del ragioniere che promette che “ci metto una buona parola io col cummenda”, quello del viaggio in pullman dei tifosi (chi mai aveva raccontato la tifoseria prima di allora?), è quello delle scommesse, è quello che nella prima vignetta Mattotti disegna i carabinieri come oggi ci sono gli steward con le loro pettorine giallo evidenziatore che guardano i tifosi, è quello delle figurine (“L’album dei Panini” è il titolo) con lo stemma, la doppia figurina della squadra di cui ti mancava sempre l’altra metà, è allegoria pura di uno dei massimi sistemi della modernità.
Loro, che moderni lo erano già sulle pagine di “Linus”.

Giordano Bruno morirà arso vivo proprio a Campo dei Fiori, in quanto impenitente che perseverò nella sua maledetta ostinazione; dirà «Desidero la sola compagnia di coloro che comandano non di chiudere gli occhi, ma di aprirli».
Li apro anche io, leggendo il gioiello che è Alè Tran Tran.
Li apro anche io vedendo le possibilità del fumetto come linguaggio, quello camuffato da sportivo.
Lorenzo Mattotti, proiettandosi in quell’universo fumettistico unico e vero, disegnerà Fuochi.
Come un fumogeno acceso il cui fumo rosso e le cui scintille brillano illuminando la curva.

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