Uomini e no

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Originariamente pubblicato su “Bistrot Babeuf”.

UNO.

Se una volta devi, per caso e per cazzi tuoi, andare da Piombino a Grosseto; e se, sempre per caso, ci hai un badaluffo di tempo che non sai come spendere; ecco: puoi evitare la E80 e pure la SS1 e attraversarti, su sbilenche strade provinciali, l’interno della Maremma. Alla ricerca, ovvio, di luoghi e di vini.
Passi per Massa Marittima e scendi, lungo la strada provinciale 49, fino al lago dell’Accesa. A un certo punto, quando riprendi la strada deciso a metterti sulla litoranea (quella strada bellissima che è la provinciale 158, quella che i Romani chiamavano Aurelia), lì dove la provinciale 49 incontra la 31 che arriva da Roccastrada, vedi l’indicazione per Ribolla.
Hai un sommovimento. Una convinzione improvvisa ti fa girare a sinistra e vai a vedere i resti del pozzo Camorra.
Man mano che il tuo vecchio e impolverato fuoristrada si mangia indolente i chilometri la storia di Ribolla riaffiora dalle migliaia di storie tra cui era sepolta nella tua testa. E la racconti alla tua famiglia. Devi spiegarglielo, in qualche modo, il perché di quella deviazione.

Una volta, lì a Ribolla, qualcosa come sessanta anni fa, c’era una miniera di lignite. Nel 1954 ogni minatore ci tirava fuori quasi 450 chili di carbone al giorno per la Montecatini. Ma quelli che comandavano, là su a Milano, alla Montecatini, non erano soddisfatti. Ne volevano di più, nel nome del “loro” profitto. Così, in nome del progresso e dei dividendi, venivano trascurate tutte le minime norme di sicurezza.
Il primo maggio nel 1954 cadeva di sabato. Due giorni di festa per i minatori di Ribolla.

«Ma la mattina del tre la festa era finita, e allora sotto a levare lignite» è la voce di Bianciardi ora che si sovrappone alla tua, l’hai letto mille anni fa La vita agra, eppure salta fuori così lungo la strada. «Si erano riposati abbastanza o no, questi pelandroni?
Eppure il caposquadra aveva fatto storie: diceva che dopo due giorni senza ventilazione, giù sotto, era pericoloso scendere, bisognava aspettare altre ventiquattro ore, far tirare l’aspiratore a vuoto, perché si scaricassero i gas di accumulo.
Insomma pur di non lavorare qualunque pretesto era buono.
L’aspiratore nuovo, i gas di accumulo, i fuochi alla discenderia 32 – come se i fuochi non ci fossero sempre, in un banco di lignite. Stavolta era stufo: meno storie, disse ai capisquadra, mandate cinque uomini della squadra antincendio a spegnere i fuochi, ma intanto sotto anche la prima gita.
La mattina del giorno dopo la miniera esplose.»

Quarantatré minatori, praticamente tutta la squadra scesa al pozzo sud chiamato Camorra, persero la vita.
E poi, ti chiede tuo figlio quello più grande, quelli lì, quelli che trascuravano le norme di sicurezza, sono finiti in prigione?
No, gli racconti. La Montecatini pagò un indennizzo ai famigliari delle vittime che, sotto il pesante ricatto della necessità, rinunciarono a costituirsi parte civile. I figli di puttana responsabili della morte di quarantatré persone, andarono assolti.
Lo sguardo di tuo figlio si sposta da te al pozzo. Ci resta fisso per qualche minuto. Sta imparando a conoscere il paese in cui gli tocca di vivere.

DUE.

Luciano Bianciardi di quella terra, la Maremma, era figlio. Non sto a raccontarti la sua storia. La conosci bene che avrai senz’altro letto il bel libro di Pino Corrias.
Però ti racconto questo. Agli inzi degli anni Cinquanta Bianciardi accetta l’incarico di direttore della biblioteca Chielliana di Grosseto. È un bibliotecario sui generis. Con l’amico Carlo Cassola sistema un vecchio pulmino del comune, lo trasforma in un bibliobus e comincia a girare tutta la Maremma. Vanno spesso a Ribolla. Parlano con i minatori. Conversazioni da cui nascerà un libro bellissimo, che dovresti aver letto.
Per Bianciardi la tragedia del 4 maggio 1954 è una ferita traumatica, profondissima. Che non basterà la scrittura di quel capolavoro assoluto che è La vita agra a rimarginare.

TRE.

Durante gli anni Sessanta del secolo scorso succede una cosa fondamentale.
L’energia elettrica, su spinta dei socialisti che a essa vincolarono il loro sostegno al IV governo Fanfani, viene nazionalizzata. Nel 1962. L’ENEL, ente fondato alla bisogna, assorbirà in quegli anni qualcosa come 1300 aziende elettriche. Lo Stato pagò quasi duemila miliari di lire a una settantina di società che gestivano tutte le aziende elettriche. Società come la Sade o la Seb, la maggior parte delle quali già controllate o in via di acquisizione da Montecatini e da Edison. Una bel giro di soldi per chi ci era dentro.

QUATTRO.

Nel 1962 Indro Montanelli chiama Luciano Bianciardi, che ha appena pubblicato con buon successo La vita agra, e gli offre una collaborazione fissa al “Corriere della Sera”. Due pezzi al mese per la terza pagina. 300.000 lire il compenso mensile. Una gran bella cifra nel ’62.
Bianciardi si prende due giorni. Ci deve pensare.

La proprietà del “Corriere della Sera” era della famiglia Crespi.
I Crespi avevano molti interessi nelle società elettriche della Lombardia. La centrale idroelettrica di Trezzo l’avevano addirittura fondata con la partecipazione della Edison.
La loro vicinanza a Montecatini e Edison (quella che diventerà, nel 1965 con il viatico di Mediobanca, Montedison) era conosciuta.

Agli occhi di chi aveva passato la giovinezza al fianco dei minatori di Ribolla quella famiglia era la personificazione del nemico.

Bianciardi rifiutò l’offerta di Montanelli.
Meglio, molto meglio restare uomini e scrivere per “Guerin Sportivo” e “Playman”.

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(Quasi)