Dimento o dell’ottimismo

Boris Battaglia | La cassetta degli attrezzi |

Capitolo estratto da Un dove che non c’è.

Beh… in effetti per essere così ingenuamente ottimisti, in quel mondo devastato e mutato, bisogna proprio essere dei dementi. Il protagonista di Mondo Mutante ce l’ha già nel nome la demenza. Dimento infatti, che deriva dal più comune e diffuso degli errori ortografici commesso dagli inglesi meno alfabetizzati quando devono scrivere il termine dementia, è l’appellativo tipico della parlata suburbana americana con cui vengono chiamate le persone con seri problemi cognitivi. Dimento è il protagonista di Mondo Mutante, ha l’aspetto di un essere umano affetto da una qualche trisomia, tiene sempre la testa piegata di lato, come gli idioti, e vaga tra le rovine di una grande città in cerca di cibo per placare una fame che, per quanto ne sappia lui, da sempre gli squassa le viscere. Dimento è un mutante, in fondo siamo in un mondo devastato da una apocalisse atomica e radioattiva, abitato da esseri mostruosi il cui unico motivo di vita è, appunto, restare in vita. Non sappiamo come e perché la civiltà sia scomparsa, ma l’immaginario delle storie ambientate nel dopobomba hanno questa particolarità: non è necessario spiegare cosa sia successo prima e perché si sia giunti a quella situazione di rovina. L’ambientazione postapocalittica rende in chiave metaforica la dimensione critica del nostro quotidiano; non c’è bisogno di spiegare la catastrofe,  perché essa è sempre in atto, in quanto è sempre operante il dispositivo della sua possibile, e probabile, attivazione: l’essere umano. Insomma, non c’è bisogno di raccontare come è accaduta la nostra distruzione. Lo sappiamo tutti, la distruzione dell’umanità è scritta nel destino stesso dell’umanità, nella sua demenza. E nell’ottimismo con cui vive quella demenza. Mondo Mutante è praticamente un fumetto volterriano.

Il mondo mutato di Dimento è come l’Europa trasfigurata di Candido: non tanto il migliore dei mondi possibili, quanto piuttosto l’unico possibile. Come Candido, Dimento si sposta errabondo, se Candido andava alla ricerca di Cunegonda, Dimento va alla ricerca di qualcosa da mangiare e da scopare. La fame non è solo quella alimentare: è un’atavica fame sessuale. Ed è così che ci viene presentato all’inizio della storia, quando, accortosi che una bellissima ragazza si sta avvicinando su un carretto trainato da un cavallo, armato di piede di porco attacca il cavallo per mangiarlo. Per salvare il cavalo la ragazza gli svela dove trovare delle uova, e Dimento, che in fondo è un buono in quel mondo crudele, lo risparmia per andare a prendersi le uova.  Solo che quando, recuperate le uova si accinge a mangiarle, viene aggredito e legato da tre viscidi personaggi che gli rubano le uova. Uova che però non sono uova, ma esseri mutanti che aggrediscono e divorano gli incauti che le scambiano per quello che non sono. Scampato a quella trappola, Dimento però resta legato in balia delle creature che popolano quel mondo. Quando, al tramonto, un altro mutante lo trova e vuole scannarlo, lo salva la ragazza dell’inizio, che da lontano stende con una fucilata l’assalitore. Riuscito a liberarsi Dimento incontra un monaco, una specie di Pangloss all’incontrario, che lo riduce praticamente in schiavitù e lo educa con discorsi filosofici continuamente contraddetti dalle sue azioni.
È esattamente qui che l’ispirazione narrativa di Corben entra in crisi e che interviene la scrittura di Strnad.

«La sfida più difficile della sceneggiatura di Mutant World è stata quella di guidare un personaggio con cui ho subito simpatizzato, attraverso una terra distrutta e ostile popolata da tremendi mutanti affamati, un esercito occupante, donne ingannatrici e persino un maniaco religioso privo del minimo calore umano e incapace di empatia, e cercare di dimostrare che anche quando la ragione e la forza si erano esaurite, nel cuore dell’uomo sopravvivevano comunque la gratitudine e una tenerezza reciproca. Ma era un continuo fallimento. Dimento è trattato in modo orribile dagli altri personaggi e la responsabilità delle sue disgrazie era mia.»

Se nelle tavole del primo capitolo, quello scritto da Corben, il testo risentiva di una certa ampollosa ridondanza, con fitte didascalie che descrivevano quanto accadeva nelle immagini, quasi Corben non avesse fiducia nella leggibilità dei suoi disegni; dalla comparsa del monaco, sotto la penna di Strnad, il testo prende una fluidità e un’essenzialità che permettono a Corben di dare sfogo a tutto il suo talento di disegnatore.

Libero dalla preoccupazione di quello che i personaggi devono fare, Corben si dedica alle due cose che gli riescono meglio, la costruzione dell’ambiente e delle anatomie. Quello cui accennavo nel terzo capitolo, il fatto che l’opera di Corben funzioni nella continuamente rinnovata costruzione di una geografia dei corpi, in questo suo lavoro è evidente. L’ambiente, lo spazio che Corben costruisce ha una connessione logica, intrinseca e diretta con i movimenti dei personaggi, con i loro corpi. Non si tratta mai di una scenografia appesa lì, come uno sfondo davanti al quale si muovono i personaggi del fumetto, ma la loro stessa evoluzione avviene in rapporto all’ambiente con cui il loro corpo interagisce. Un esempio su tutti, l’equilibrio della prima tavola dell’ultimo capitolo, dove Dimento amareggiato dal fatto che Julie, così si chiama la bellissima ragazza dell’inizio, gli abbia preferito il militare, diventa un tutt’uno con l’ambiente in cui si trova, il grigio muro diroccato. La solitudine del luogo non è una metafora della solitudine interiore di Dimento, ma è la sua solitudine. 

Sicuramente merito della tecnica dell’aerografo, che Corben porta qui a un livello inimitabile, ma la caratterizzazione di Dimento raggiunge la perfezione. Corben riesce a creare tra il lettore e questa specie di Candido sfortunato, un’empatia immediata, totale, che diventa immedesimazione fisica. Pensa all’ultima tavola, muta, in cui, dopo aver fatto finalmente l’amore con Julie, Dimento si mette sull’uscio, a osservare con dolcezza il corpo nudo della ragazza addormentata. Poi si volge a guardare l’alba e la sua testa si piega, in quella posizione tipica da idiota che ha avuto per tutto la storia, solo che questa volta c’è una ragione precisa in quella posizione, dovuta allo sguardo del lettore, condotto in quell’assetto dalle linee vettoriali del paesaggio. 

E mai come davanti a questa tavola capisci quanto sono indispensabili quell’ingenuità, quell’idiozia, quella purezza per godere profondamente di un fumetto come questo. Di tutti i fumetti. È necessario tornare bambini.

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