Più ferite che battaglie

Boris Battaglia | Pantomime del Calisota |

Ahr! Ahr! Ahr!

Certo che ti immagino, Spari, mentre usciamo dalla solita scrausa trattoria in Bovisa, e mi sfanculi per i miei tentativi di mettermi in sella sulla mia bici scassata. Non ci vuole un grande sforzo d’immaginazione. Anche se non capita da quasi tre mesi, era la parte finale del copione delle nostre uscite a cena. Quella parte recitata che, nella sua ricorsività, rimandava alla certezza di una cosa che adesso ci manca fottutamente: il rivederci lì entro una settimana.

Un copione, ma scritto dannatamente bene. Io che barcollo nel tentativo di darmi un contegno da ciclista, e ti osservo, te che te ne vai a cercare di ritrovare l’auto, allontanandoti a passo di danza. Come un navigato tanghèro, con la rosa tra i denti, che di barrida in barrida, si dilegua nella notte. Mentre l’inquadratura in cui ti osservo si stringe sullo spirito di Gardel che si è impossessato di te, con un effetto iris, oscurando progressivamente e in modo circolare il mio sguardo, come nel finale di una comica del cinema muto.

Cavolo! Forse però questo restringimento del campo visivo non è un effetto cinematografico, ma la conseguenza delle tre bottiglie di vino bianco che hanno accompagnato la nostra cena. Vallo a sapere.

Ahr! Ahr! Ahr!

Rido. Ma è per darmi contegno e coraggio. Perché ora devo pedalare fino a casa con lo sguardo ridotto a queste fessure. E c’ho da fare il Ponte della Ghisolfa. Lo sai che Milano ha le sue Scilla e Cariddi, e il Ponte della Ghisolfa, di notte, in bici, è una di quelle zone. Meglio se ci passo da sotto. Sotto il ponte, poco prima di piazzale Lotto, all’incrocio con viale De Gasperi, c’è uno dei porti sicuri che la notte milanese offre ai suoi naufraghi. Un baracchino mobile che vende panini (salamella e peperoni) e birra peroni a chiunque abbia bisogno di una sosta e di un ristoro. È una specie di rifugio, dove la più varia umanità trova tregua alla disumana e perenne compravendita che è la vita quotidiana in questa città.

Questa notte (era Agosto, mi sembra l’ultima volta che abbiamo cenato da quelle parti, o forse Settembre) c’è un’umidità pazzesca. E questo antro sotto il cavalcavia, somiglia in modo incredibile al più lurfido dei bar di Macao. Non faccio letteratura: prostitute, spacciatori, nottambuli con fame chimica, sbirri, tossici e “avventurieri” come me convivono in una tregua quasi riposante.

Mentre mi fermo e smonto dalla bici mi si pianta un verso biblico in testa… hai ragione Spari, quando dici che non ci liberemo da questa cosa: di essere cresciuti troppo vicini al Vaticano… “Sarà un riparo per l’oppresso, in tempo di angoscia un rifugio sicuro.”

Ahr! Ahr! Ahr!

Rido, mentre cerco sullo smartphone la citazione precisa del salmo che ho in testa (è il Salmo numero 10, versetto 10). Rido perché a me gli accademici, tipo quelli che studiano il fumetto, han fatto sempre ridere; che perdono tempo a verificare se la citazione dal libro dei Salmi con cui Altan apre quel gioiello di Macao, è vero oppure no. Te lo dico subito: è inventato, con un bel po’ di anni di anticipo su Tarantino, ma è assolutamente irrilevante. La cosa importante è che quella citazione apre la porta di un bar che una volta che ci sei entrato cominci a discendere nel fango darwiniano della natura umana, che farebbe cambiare idea, se l’avesse letta, a qualsiasi sostenitore di slogan come “restiamo umani”. Cosa dobbiamo restare? Umani lo siamo, e questa umanità è la causa di tutta la merda in cui rischiamo di annegare.

Francesco Tullio Altan è un signore del 1942. Oggi ha settantotto anni e, a parte qualche raro guizzo, non morde più come un tempo. Probabilmente lo conosci per le sue vignette di Cipputi, e per le storie della Pimpa, ma devi anche sapere che tra il 1978 e il 1988, ha sfornato una serie di storie a fumetti (tu chiamale se vuoi graphic novel) nelle quali, con una crudeltà che definirei celiniana, ha fatto l’esame autoptico non della nostra civiltà, quanto dell’intera specie umana. E il referto, pur raccontatoci tra le più sguaiate risate, è agghiacciante. Se leggi, Ada, Colombo, Brandelli, Franz, Macao, ti convinci presto che forse più che restare umani, sarebbe opportuno diventare disumani. Ognuna delle sue storie ti apre ferite che non si rimarginano e, appunto, ti lasciano a brandelli.

Ahr! Ahr! Ahr!

Macao è probabilmente la più disperata – non te ne svelo nulla: è una spy story e se non l’hai ancora letta ti rovinerei le tante sorprese che troverai nel cammino della lettura -, la storia finale; tanto che proprio dopo di essa (e qui lascio il compito agli accademici che non amo di smentirmi, con le loro bibliografie) Altan non ha più realizzato storie di tale respiro e tale complessità strutturale. Che si chiude con una vignetta che non dimenticherò mai. Nello stesso lurfido bar dell’inizio, ripetendo con cambio di tempo una sequenza iniziale che stabilisce l’equilibrio di tutta la storia, quello che inizialmente era lo spettatore della storia avvisa il protagonista che una delle ragazze che si prostituiscono nel bar gli sta rubando il portafogli.  “Fa niente,” risponde lui “è vuoto come il mio cuore.” E tu resti lì di ghiaccio, perfettamente immedesimato con Uwe, il marinaio protagonista (il più sentito e originale degli omaggi a Corto) di questa avventura, con lo stesso “inferno in mezzo al petto… e una cirrosi nel fegato.”

Ahr! Ahr! Ahr!

Ho finito la peroni. Risalgo in bici. Con qualche lacrima negli occhi. Come capita a Uwe, per il fumo, o forse a causa della sua vecchia malaria. A me mi sa che è per il ridere.

Lo so. Uwe, questo stronzo disincantato, sono io.

Mentre pedalo verso quella che credo la direzione di casa, il salmo lascia spazio a una canzone di Vecchioni. Di quando le sapeva scrivere:

Bello l’eroe con gli occhi azzurri dritto sopra la nave
Ha più ferite che battaglie, e lui ce l’ha la chiave
Ha crocefissi e falci in pugno e bla bla bla fratelli
Ed io ti ho sollevata figlia per vederlo meglio
Io che non parto e sto a guardarti e che rimango sveglio

Forse non lo sai ma pure questo è amore.

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(Quasi)