Un wrestler guarda The Wrestler

Beniamino Malacarne | Squared Circle |

dell’Onorevole Beniamino Malacarne (Stefano Tevini)

In The Wrestler, il film di Darren Aronofsky con Mickey Rourke, di wrestling ce n’è poco. E ce n’è moltissimo. No, non soffro di alcun disordine che si manifesti con personalità multiple. Credo. Adesso chiedo a Edgar, il tizio che mi mette nei casini quando dormo. Va in giro con una faccia che mi assomiglia a rapinare banche, e dorme nel mio letto. O quanto meno lascia il mio indirizzo. Tanto che spesso vengono a suonarmi «Scusi, il signor Edgar?» e io tutte le volte a spiegare che mi chiamo Stefano Tevini, oppure Onorevole Beniamino Malacarne ma quella  è la mia personalità da ring, cioè, non è  tecnicamente un disturbo. Credo. Però non verifico. A ogni modo, dicevo, nel film The Wrestler di wrestling ce n’è poco ma, al tempo stesso, moltissimo. A prescindere dalle mie divagazioni. Adesso basta divagare, Edgar. A ogni modo, ce n’è poco perché, a livello lottato, non si vede granché. E ‘sticazzi, dirà qualcuno. In particolar modo i fan di wrestling che se vogliono vedere del wrestling lottato ci sono milioni di match recuperabili da una vagonata di canali diversi. C’è davvero da uscirne scemi. Ci sono anche i miei, se li cercate. Comunque, di wrestling lottato, dicevo, ce n’è poco. Roba che un ragazzo che si allena in tipo sei mesi saprebbe già fare tutto quello che vede nel film. Oddio, tranne se è come me, che ho l’agilità di una pianta ornamentale e solo per imparare a fare un flip ci ho messo tipo sei mesi. Cos’è un flip? Ve lo spiego un’altra volta che se vi racconto tutto adesso viene un pippone che a leggerlo tutto vi dovete pigliar ferie. Il che, se siete liberi professionisti, è un casino. Con i tempi che corrono, ci mancherebbe. Quindi, se di wrestling lottato ce n’è poco, e se non vi va bene cercatevi un match su YouTube, uno a caso, ce ne sono un milione, perché dico che ce n’è moltissimo? Perché Aronofsky ha capito il vero senso del wrestling. E non solo del wrestling. Perché in quell’altro suo film, Il Cigno Nero, racconta sostanzialmente la stessa storia ma con una strategia tutta diversa. E cos’avrà mai capito di tanto profondo Aronofsky? Che il wrestling non ti molla più. Una volta che sei salito sul ring sono cazzi tuoi. Non te lo scrolli più di dosso. Magari smetti, eh, per mille motivi. Uno su tutti, il tuo corpo ti molla. Che poi è una delle cause più comuni di abbandono qui in Italia. Attenzione, non è che muori, il che come motivo per mollare il ring sarebbe piuttosto valido, e nemmeno finisci in sedia a rotelle, che pure è una ragione piuttosto fondata. Diciamo che ti fai male. Spesso. Una volta. Due. Tre. A un certo punto il tuo corpo, o un dottore, o ambedue ti dicono «Senti, è il caso che facciamo due parole» con quel tono che sai che sta per dirti qualcosa che non vuoi sentire. E allora molli, ti tocca. Ma molli col corpo, mica col cuore. Col cuore e con la testa resti sempre là in cima. Perché il ring, adesso sparo la banalità emotiva dell’articolo, è una droga. Ma tipo che secondo me chi cuce il tappeto del ring poi lo tratta con qualche sostanza che dà dipendenza. Perché oh, non ne esci. Anche io per un periodo non ho lottato, fortunatamente non per problemi fisici. E tutto sommato in superficie sembrava tutto a posto. Ma qualcosa c’era in un angolo della mia testa. Un piccolo, stronzissimo Mickey Rourke in miniatura che se ne stava lì a scavare. Io quasi me l’ero messa via. Poi un paio di amici del ring mi hanno detto “Senti ma quand’è che fai un salto qui a dare due craniate al ring?” e SBAM! Lo stronzetto in miniatura è saltato fuori dal suo angolo nel mio cervello e si è messo a esultare come Grosso a Berlino nel 2006, anzi, come Daniel Bryan dopo il main eventi di Wrestlemania XXX. Ribadisco, il ring non ti molla. Mai. Ora, The Wrestler è un film di Hollywood, quindi tutte le dinamiche sono super esagerate perché per vendere i biglietti del cinema il verismo verghiano non ha mai portato grandi risultati, ha fatto il suo tempo ma mica faceva i numeri, per dire, degli Avengers. Quindi, Aronofsky ha sicuramente esagerato determinate dinamiche, qualcuno che ha mollato lo conosco e nessuno a seguito dell’abbandono è diventato un disadattato. Magari qualcuno lo era da prima, inclusi i presenti, ma non siamo ai livelli di Mickey Rourke. O meglio, forse non qui da noi perché in Italia non ci campa nessuno, di wrestling lottato. Ma in America, forse forse, se hai conosciuto solo il ring come orizzonte lavorativo, se hai assaggiato la polvere di stelle, ci sta che poi quando la perdi non ti riprendi più del tutto. Non ce la fai a tornare nei ranghi e qualcosa di quel che eri prima ti resta. Perché hai toccato il cielo. Chi al Madison Square Garden, chi in una balera davanti a quaranta persone tutti i venerdì sera. Poco importa. Quando sei lì, come dire, sei lì, e ogni singola pulsazione di quell’energia la senti. E non importa se ti amano o se ti odiano, se dovesse venirmi tutto d’un colpo tutto quello che hanno augurato a me, un cattivo naturale sul ring, cadrei seduta stante in un mucchietto di cenere. Puff! Scherzavo. Comunque la senti, e fai fatica a farne a meno. Fai fatica stare lontano da quei pochi metri quadri in cui tutto diventa strano, elettrico quando ci metti piede, che anche lì non mi sbilancerei ma forse nelle corde ci mettono un’antenna 5G che si attiva anche senza il vaccino magico, e semplicemente inizia a prenderti meglio il wi fi e tu ti senti elettrico. A ogni modo, capisco Mickey Rourke, anzi, Randy the Ram Robinson, il suo personaggio nel film. E forse Aronofsky nemmeno esagera troppo, forse solo una puntina, perché c’è tutta una generazione di wrestler che c’è rimasta sotto. Vuoi per i problemi fisici, vuoi per la vita non proprio da educande che fa chi lotta per campare e passa tutto il tempo on the road, vuoi perché quando Sali sul ring non ti molla più. Sta di fatto che, di tutti i film sul wrestling, The Wrestler è quello che più profondamente l’ha capita, quella sensazione. Quella dipendenza più o meno latente, quell’amore profondo e distruttivo, quella mentalità che forse non è salutare, ma di qualcosa bisogna pur morire, e allora tanto vale farlo sentendoti un dio.

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