Ecco, figliolo, tieni, la mosca bianca che non è bianca

Lorenzo Ceccherini | Il bassista non se lo incula nessuno |

La fiducia nel tempo, da sola, non è molto di più che fede nell’entropia e nei processi di trasformazione (che quasi sempre etichettiamo come decadimento) che contraddistinguono l’esperienza del mondo naturale che siamo in grado di raccontare, quello dominato e governato dalla freccia del tempo. Se avessi il tempo, appunto, la calma e la dedizione per potermi sedere a un margine del giardino della casa in cui vivo, riuscirei a percepire con chiarezza e serenità l’incedere delle ortiche, mai viste prima in quasi dieci anni, nel conquistarsi intere aree di terreno, con gran successo. La crisi progressiva della siepe di lauroceraso, pianta di origini balcaniche, un tempo di moda in ragione della rusticità e del costo contenuto – oggi spersa in cicli climatici nocivi, facile preda di parassiti e malattie fungine. La crescita esponenziale dell’infestazione da aleurodidi – simpatici insettini di origine tropicale che, nel corso degli ultimi decenni, hanno seminato distruzione nelle colture orticole e ornamentali. Ah, e non ho la minima idea se «aleurodidi» sia parola sdrucciola o piana.

Aleurocanthus Spiniferus – la mosca bianca ma nera, uno stronzo millimetrico micidiale e beffardo.

Quando ero ragazzino si usava definire mosca bianca qualcuno che fosse fuori dal comune. Perché, un po’ come il cigno nero con cui quelli che volevano far bella figura per far capire a noi che loro han capito tutto ci hanno scassato la uallera negli ultimi due decenni, che si pensava non esistesse e invece bastava scoprire l’Australia – anche la mosca bianca si pensava proprio che non esistesse. E invece…

La trama poi si infittisce perché sulle mie piante hanno insediato una Hong Kong dei loro sogni generazioni e generazioni di Aleurocanthus Spiniferus, la mosca bianca che si distingue ulteriormente perché… è nera. Al che non so se considerarmi irriso dalla sorte o meno, ma il pensiero dura giusto qualche attimo, sostituito dalle sacramentazioni degnamente generate per la portata degli sforzi volti a eradicare questi millimetrici stronzetti. Senza riuscirci. Due anni di potature, lotta chimica non scriteriata ma pur sempre lotta, piante buttate via e ancora questi minuscoli seccatori promettono di scatenare la bruttura delle conseguenze della loro esistenza sulle mie povere rose, su quei due limoni derelitti e anche su un tot di piante che non si fila quasi nessun altro ma loro sì.

Ecco, se dovessi avere solo fiducia nel tempo otterrei quasi certamente il deperimento delle piante di cui tento, con risultati variabili, di aver cura. Finirà probabilmente così comunque, perché credo che non abbia senso sparare neonicotinoidi alla cazzo e sterminare api, bombi, sirfidi e impollinatori vari solo perché altri mi stanno massacrando qualche pianta. Però non finirà senza una lotta, questo è garantito. Anche se il tempo è dalla parte del nemico in modo assolutamente impari.

Spesso e volentieri, quando amici e familiari ti vedono in affanno, ti consigliano di «rallentare». Certo, potresti aver sbagliato un po’ la misura della velocità con cui stai procedendo, aver trascurato certe dipendenze, certi limiti fisici di rapidità di esecuzione, però, anche in questo caso, se ti affidi solo al tempo, non è detto che la tua sofferenza si allevii. Anzi. Rischi di vederti operare e agire la solita via trucis in slow motion, uno spettacolo che nessuno vuole vedere – come essere il drone di sé stessi che ci inquadra dall’alto e ci fa vedere cosa stiamo facendo. Non funziona così, non basta scalare il metronomo verso il basso. Ci devi mettere, o togliere, qualcos’altro.

Rallentare non vuol dire banalizzare. Ron Carter con Miles Davis, My Funny Valentine

Se stessimo parlando di musica potremmo dire che tempo e ritmo sono due concetti diversi, ma non so se l’analogia tiene se poniamo mente alle nostre agende quotidiane e al mondo del lavoro, a come questo possiede materialmente il nostro tempo. Dipende anche da quello che facciamo. In alcuni casi possiamo procedere anche un po’ più lentamente, ma non troppo, perché poi la fila dei clienti si allunga e qualcuno lo perdiamo. Ma magari non si nota molto, o il cliente non ha alternative praticabili e quindi si può cambiare la nostra velocità esecutiva, sempre che non ci sia, a sua volta, un capo sopra che si incazza. Altre volte i presupposti sono più complessi e intricati, i percorsi molteplici, con istanze e pressioni che vanno in competizione, se non in conflitto e lo iato che separa il problem setting dal problem solving diventa una palude stigia buia e confusa. E le giornate non solo lunghe e faticose ma anche poco concludenti. Mentre ci mariniamo in un trionfo di incomunicabilità, le ortiche si prendono il territorio.  Eppure in tutto questo pare esserci del privilegio, perché qualcuno raccoglie pomodori in condizioni di schiavitù, qualcun altro lavora a chiamata, a gig per dirla moderna, o per niente o per qualche briciola. Penso spesso a quelli dell’azienda municipale dei rifiuti che raccolgono rifiuti per strada – in questa città tappezzata di slum e ville con piscina, di cassonetti esplosi e SUV sempre più costosi.

Il terrore di stare peggio, avendo sott’occhio esempi di un possibile tale peggio, è diventata la più grande forza di controllo sociale di questa epoca. Dimenticarsi, o far mostra di riuscire a dimenticare, un tale terrore, l’incarnazione di un lusso sfrontato. Anche se sappiamo tutti che quando si potrà campare centinaia di anni, permanentemente giovani e belli, toccherà veramente a pochi. Per il momento, però, fottersene delle conseguenze, ciascuno al livello delle proprie possibilità, pare essere l’affermazione di status più desiderata.

Il bassista che non si incula nessuno ha gioco facile, ha un mazzo di carte finte che ha scarabocchiato lui stesso, non è neppure un bassista e forse neanche altro. Sciorina discorsi di sociologia, o economia, o fisica, da sacchetto di patatine, accenna a cose che forse hanno anche un senso o una sostanza ma si deve fermare per una imperizia costitutiva – e se anche non fosse così, ci mette comunque la «sicura» di un approccio giullaresco, rassicurante in via preliminare, così da consentirvi tranquillamente di dirvi che potete derubricare tutto quanto leggete qui a mero esercizio di cazzoneria. Così da non arrecare disturbo alla quota di terrore che già vi portate dietro.

Quando suoni e non ti si sente, barare è più facile, però sai di averlo fatto…

Dicevo, qualche capoverso addietro, che potrebbe trattarsi di togliere qualcosa. Non so, dopo tutto questo tempo, dargli un nome preciso ma posso dire di saperlo riconoscere, questo qualcosa. È un fenomeno che avviene quando la dimensione temporale diventa, semplicemente, meno importante e iniziamo a farci meno attenzione. Paradossalmente, non funziona dicendosi «rallenta». Funziona cambiando atteggiamento – la cosa frustrante è che, anche se ci sei riuscito in certe circostanze, in altre ti troverai completamente in alto mare, il metodo sembra sfuggire all’apprendimento.

Che sia frutto o meno dell’illusione non saprei dire, però sottraendo una quota di patema di risultato, di ansia da prestazione, di fame di obiettivo (e qui pensiamo a quanto possa far male al benessere e alla creatività la mitologia del risultato), togliendo quella attenzione spasmodica al rapporto tra quote insignificanti di tempo trascorse e necessità di misurare cambiamenti tangibili nel mondo osservabile – respirando un po’ più a fondo e un po’ meglio, possiamo rompere l’assedio per qualche attimo o qualche ora.

E non sto parlando di distrazione. Quella è un’altra storia, legata all’inoculazione di oggetti di intrattenimento, lì il tempo lo si ammazza o lo si consuma, a seconda che se ne abbia troppo o troppo poco. A seconda della coorte demografica a cui appartieni ti anestetizzi guardando la televisione, quella pagata solo col canone se non c’hai voglia di spendere, sennò quella in abbonamento, oppure facendo torrentismo tra le serie delle piattaforme di streaming online o, ancora, lanciandoti a giocare in RPG open world dove magari ci metti quaranta minuti nell’andare a cavallo da un posto a un altro e devi ricordarti di dare da mangiare al cavallo altrimenti quello muore. Realtà sintetiche con problemi simili a quella che stai cercando di dimenticare. Vabbe’, puoi sparare (non se guardi la tv o le serie) e puoi morire senza preoccuparti dell’oltrevita, alla peggio ricominci la missione (sempre e solo nei giochi), e tanto basta a fare la differenza, tanto che portare nella narrativa un po’ di problemi da «vita reale» forse è un modo per temperare una hybris altrimenti eccessiva (ci sono ancora i cheat codes che abilitano i «God mode» nei giochi di oggi?).

Ecco, non questa roba – penso più a qualcosa che si avvicina alla sostanza di un contatto con un mondo naturale. Una scarpinata nel bosco, su un pendio montano, riuscire su un costone erboso, al sole, al vento. Ingredienti che ti facciano dimenticare di chiederti che ore sono, o dove hai messo lo smartphone. Però non è il caso di elaborare troppo – anche qui si annidano schemi di idealizzazione abbastanza automatici, e pattern di antisocialità travestita da «amore per la natura». Personalmente, quando mi si chiede una preferenza, mi oriento verso un modello di densità abitativa stile Yukon, 0,07 persone per chilometro quadrato, ma nell’affermazione non alberga l’operatore logico che esclude l’opposto – la folla per la folla non mi piacerà di per sé ma non rifuggo necessariamente le occasioni sociali, le feste, i ritrovi. Non rifuggivo, dovrei dire, visti gli ultimi tredici mesi. Vedremo come sarà abituarsi a uno schema diverso, ammesso che possa esserlo – nel lavoro la lontananza obbligata non è stata di per sé un male, anzi, anche se l’abolizione forzata del rituale aziendale della riunione è stata seguita dalla sostituzione con una agenda di call e videoconferenze che occupano l’ottanta percento del tempo. Di nuovo, non varrà per tutti i casi, però non avere mai un momento per potersi ritirare in compagnia di sé stessi a riflettere, a ponderare, a farsi domande che richiedono dell’impegno per poter essere formulate oltre il livello della banalità, non può essere una buona cosa. Senza uno Yukon della mente in cui potersi sperdere in modo controllato la testa, la mia almeno, esplode. Il paradosso più sardonico di tutto ciò non è che questa sia una conseguenza della pandemia in corso. No, no. Era così anche prima e ha continuato a essere così. Davvero mi chiedete di scommettere sul fatto che non sarà così anche dopo solo perché finirà, in qualche modo, la pandemia?

C’è spazio, si respira…

Con questo di oggi credo di essere arrivato a venti pezzi per QUASI – onestamente ho perso il conto. Numero le bozze che scrivo, prima di caricarle sul Content Management System del sito di QUASI ma non potrei giurare di non aver saltato o ripetuto qualche numero. In ogni caso, ne ho già parlato in passato, oggi penso di poter riprendere il discorso con un respiro forse più ampio: il linguaggio musicale dà una dignità diversa, forse limitata, anche se io direi focalizzata, allo stare insieme delle persone che suonano la musica. La sala prove potrà essere angusta e pure un po’ soffocante, specie in estate, specie se la ventilazione è carente o assente (ne ricordo alcune così) però la vastità del proprio Yukon interiore te la puoi portare tutta e, se non esageri con le tue manie, potresti anche riuscire a rendere trasparenti le evidenti spiacevolezze della tua personalità, quelle che, invece, emergono con facile spontaneità quando non suoni. In altre parole, puoi startene da solo pure se esposto, insieme ma non necessariamente confuso come individuo. Dopo tanto tempo ho iniziato a capire perché molti preferiscono suonare con la band e parlare il meno possibile.

Nel territorio metaforico e metafisico della musica le mosche bianche non mancano, la tua capacità come musicista e il tuo gusto come esecutore o autore sono necessariamente «bacati» da qualcosa. Certo è che qualcosa ci puoi fare, sempre. A differenza di quel che accade nel mondo prettamente «naturale». Puoi studiare di più, meglio, impegnarti maggiormente, suonare con più persone, ascoltare più musica, più generi, andare a più concerti. Ho già citato parecchio tempo fa Pablo Casals che, a chi gli chiedeva perché a novant’anni suonati continuasse a studiare, rispondeva «perché sto migliorando».

Ci sono battaglie di retroguardia che non possiamo vincere, come quella contro le legioni infernali di Aleurocanthus spiniferus, parte della nostra formazione di esseri limitati e vulnerabili riposa proprio su esperienze di questo tipo, nelle quali si impara, oltretutto, che l’«opzione nucleare», ammesso che sia disponibile, genera sempre un qualche tipo di fallout particolarmente pernicioso con cui è bene fare i conti in anticipo. Applicarci in qualcosa che possa essere anche solo una passeggiata nei boschi senza una destinazione ma con un passo e un gusto dell’esperienza che migliorano in ragione del nostro impegno e del nostro saper essere presenti, ecco, questo forse potrebbe salvarci.  Goethe, nel suo Faust, scrive: Wer immer strebend sich bemüht / Den können wir erlösen. «Colui che sempre si sforza e impegna, lo possiamo salvare». Forse la retorica del risultato ci rende disumani, o forse va bene per la scena lavorativa, ci mancherebbe altro – io stesso mi trovo spesso a sottolineare la dolorosità inanità dello sforzo che non raggiunge il risultato prefigurato – fatto sta che credo che dovremmo avere spazi liberi in cui poterci dimenticare del risultato come Mammon di turno. Posto che la felicità è merce complicata da catturare e misurare, manco fosse il bosone di Higgs, i paesi che occupano i posti più alti nella classifica del World Happiness Report sono anche quelli nei quali l’associazionismo e la coltivazione di più hobby sono maggiormente favoriti dalle condizioni socio-economiche e dalle politiche istituzionali.

Tranquilli, alla nostra porta Mefistofele non bussa. La nostra anima è già persa senza che diventiamo ‘sti grandi artisti.

 Però, se penso alla vita che fanno i musicisti professionisti, sia per diventarlo, professionisti, che per continuare a campare, allora mi sento di dire che non ho dubbi. È il lavoro. Il lavoro, parafrasando Christopher Hitchens, come la religione, avvelena tutto. Certo, pochi, pochissimi eletti e una quota ridotta di mitridatizzati emergono al di sopra di un certo livello – i più no, finiscono travolti, spesso dallo studio di qualcosa che sarebbe stato meglio lasciar perdere ma non si poteva, e altri ancora dall’insistere nel cercare di fare quel che non gli era poi così congeniale. Se avessero potuto lasciar da parte la chiave di lettura lavorativa avrebbero respirato meglio.

Vogliamo un esempio che sparecchia la tavola? Bene. A quanti piace cucinare? Sempre di più, pare di capire, anche dalla moda di questi talent show culinari con chef-giudici bastardi e incattiviti come pochi. Bene, anche a me piace, molto. E mettiamo che ci impariamo un po’ di cose più elaborate di quelle richieste dalla cucina di casa, d’accordo, però non c’è dubbio che quando ci dovessero mettere nella cucina di un ristorante schiatteremmo in un batter d’occhio.

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Preghiera per gli dei delle zone infette [cit.]: va bene il PM10, il PM2.5, il biossido d’azoto, l’anidride solforosa, l’ozono, le microplastiche ovunque, e passino le discariche a cielo aperto dei cassonetti sfondati e quelle furbe delle zone residenziali palafittate su gettate di rifiuti tossici. Passino la burocrazia e la sua forma digitalizzata, tutte le miserie della politica e i tubercoli della democrazia, passi pure la pax sinensis, o Franza o Spagna, tanto… – passi un po’ tutto, che non se ne parli più, ma, da qui alla fine, fatemi restare sempre un dilettante e lasciatemi almeno un’ora tutti i giorni per migliorare un po’, ché la Giga di Bach è sempre alla settima battuta e io non ce la sto facendo.

Il cinquantuno non si trasforma in cinquantadue…
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