Se i fucili han domato i ribelli

Boris Battaglia | Crocevia di libertà |

È una banalità. Ma piazza Fontana si chiama così, proprio perché in mezzo c’è una fontana. Quando nel 1780 Giuseppe Piermarini, su incarico dell’arciduca Ferdinando, riorganizzò lo spazio antistante l’Arcivescovado, aprendo questo quadrato da cui far partire l’asse di collegamento (battezzata via Santa Radegonda) con la Scala, non aveva la minima idea di come chiamarla. Così, visto che ci aveva collocato nel centro una semplicissima fontana, la chiamò provvisoriamente piazza Fontana.
Beh, sono passati più di 240 anni e quel toponimo è ancora lì. In realtà, durante il Regno d’Italia napoleonico il nome le fu cambiato in piazza Tagliamento, per celebrare una battaglia che lungo quel fiume aveva visto trionfare i francesi sugli asburgici. Ma i milanesi sembrarono quasi non accorgersene e, come continuano a chiamare Giardini Pubblici il parco progettato sempre dal Piermarini che un’ottusa amministrazione (quella Albertini) ha voluto dedicare a un reazionario pennivendolo, così continuarono a chiamare quello slargo, piazza Fontana. Finché, dopo l’abdicazione di Eugène de Beauhamais, anche nei documenti ufficiali e sulle mappe, il nome tornò a essere quello.

Mentre ti raccontavo di Pietro Gori, ti ho condotto fin qui, in questa piazza, per mostrarti questo grande bivacco militare. Li vedi, soldati acquartierati ovunque, tra piazza del Duomo e l’Arcivescovado. Ti starai chiedendo perché ci sono tutti quei cavalli che usano la fontana della piazza omonima come abbeveratoio. Perché la piazza è stata praticamente trasformata nella caserma del 15° reggimento Cavalleggeri di Lodi. È il 7 maggio del 1898 è Milano è in stato d’assedio. È da ieri che tra qui e Porta Ticinese, 7 reggimenti di fanteria, 3 reggimenti di Cavalleria, un reggimento di Lancieri, una legione dell’Arma dei Carabinieri, non ricordo quanti battaglioni di bersaglieri e alpini e 3 divisioni di artiglieria, fronteggiano una vera e propria insurrezione cittadina.
A causa della guerra tra Spagna e USA i prezzi dei cereali sono aumentati in modo vertiginoso. A metà gennaio 1898 per comprare un chilo di pane ci vuole mezza lira, cioè il salario di una giornata. Prova a immaginarti cosa vuol dire: con il tuo stipendio potresti giusto comprare il pane, e di tutto il resto, dal companatico, all’affitto, al tabacco, alle mutande di ricambio (mica stiamo parlando di lussi, ma di necessità) devi fare senza. Insomma. È comprensibile che la gente si incazzasse, non trovi?
Le tensioni a Milano erano cominciate a marzo, quando per il cinquantennale delle cinque giornate, sotto al monumento per i martiri di quei giorni, eretto nel 1894 sui resti di Porta Tosa (oggi Piazza Cinque Giornate), Pietro Gori aveva improvvisato un fervente discorso non autorizzato.

Ti ho già detto che Gori era tornato a Milano dopo l’esilio a Londra, grazie a un’amnistia. Gli era stata però proibita ogni attività politica. Poteva solo esercitare la sua professione di avvocato. Così aveva riaperto il suo studio legale e aveva ricominciato un’instancabile attività di difesa dei suoi compagni anarchici nei tribunali. Negli ultimi decenni dell’Ottocento i processi penali (in particolare quelli di Corte d’Assise) possono essere considerati come uno dei principali spettacoli pubblici dell’epoca. Seguiti dal pubblico borghese, attraverso le cronache delle gazzette, con avido interesse. Gori era assolutamente consapevole di questa cosa, e le sue arringhe di questo periodo, magistralmente strutturate e miscelate su elementi dell’immaginario borghese e del simbolismo popolare, sono un formidabile esempio di un tentativo (riuscito) di formazione di consenso pubblico attorno alla propria persona e al proprio ideale. In quel discorso improvvisato, nel quale spezzava consapevolmente le catene della sua libertà condizionale, Gori diede prova della sua capacità retorica, convincendo il suo pubblico che era tempo di mantenere la vasta e terribile promessa di quelle giornate del 1848: la promessa del riscatto.

«Cittadini! Innanzi all’alba rossa del XX secolo, che si affaccia su questo cinquantennio di combattimenti e di speranze deluse e tuttora rinascenti, dobbiamo promettere in nome degli sfruttati e degli oppressi di tute le patrie che la liberazione finale la compiremo noi.»

Non voglio dire che fu merito di Gori, perché le circostanze che portarono agli avvenimenti del maggio furono molte e molto complesse. Ma sono convinto che l’attività di Gori e degli anarchici da lui riorganizzati, ebbero un peso fondamentale nelle vicende che seguirono.
Il 6 maggio infatti, dopo una settimana di tensioni continue, cominciate il primo maggio con la più grande manifestazione contro il carovita che, non solo la città, ma l’intero paese, avessero mai visto (90.000 persone manifestarono per le strade di una città che allora contava 320.000 abitanti) e proseguite con lo sciopero della Pirelli e dei tramvieri, Milano insorge. Era un venerdì. Verso mezzogiorno, vengono erette le prime barricate a Porta Garibaldi, Porta Venezia, Porta Volta e Porta Ticinese. Il generale Bava Beccaris, nominato commissario straordinario, dichiara che non si tratta più di dimostrazioni popolari ma di una vera e propria insurrezione. Non ha torto. Se si escludono la stazione, le carceri, la centrale elettrica e il quadrilatero che va dall’arcivescovado all’inizio di Porta Ticinese, la città è in mano ai milanesi.
Il “Corriere della Sera” e gli altri giornali borghesi parlano di una “Comune” di Milano. La tensione è altissima, viene dichiarato lo stato d’assedio e, inevitabilmente, il 7 maggio cominciano gli scontri. Sarà vera guerriglia, e durerà tre giorni.

Come per ogni guerriglia urbana, gli avvenimenti si succedettero in una specie di tempo sospeso: le truppe regie tentavano incursioni a sfondare barricate, ma la notte gli insorti si riprendevano le posizioni, stringendo i governativi nel lugubre quadrivio intorno al Duomo. Le trattative erano incessanti, ma avevano un sapore falso. Infatti, il 9 maggio Bava Beccaris, emulo del macellaio della Comune MacMahon, decideva di usare l’artiglieria.

«Riuscite inefficaci le cariche a fondo della cavalleria e l’azione a fuoco della fanteria, fu necessario ricorrere al cannone, solo mezzo per avere ragione di una folla che l’esaltazione e il desiderio di rivincita rendeva audace, aggressiva e sprezzante di ogni pericolo…», queste le sue parole a giustificare la strage.

In realtà i cannoni spararono ad alzo zero da piazza Duomo sui manifestanti che avanzavano da piazza Fontana e dal Ticinese. Le stime ufficiali di quel giorno parlarono di 80 morti tra i civili, ma i caduti furono più di 300 e 450 i feriti. Tra i militari i morti furono solo due. E uno dei due soldati, di cui non ci è stato tramandato il nome, fu fucilato perché si rifiutò di sparare sulla folla.
Gli arresti immediati furono più di 2.000. Innumerevoli le persecuzioni dei mesi successivi e le condanne. Pietro Gori venne condannato a 12 anni, ma fortunatamente fece in tempo a rifugiarsi a Marsiglia e da lì in America.

Riprendendo il discorso a proposito di toponomastica cittadina, a Bava Beccaris e al suo luogotenente Luchino del Maino sono dedicate vie di questa città, a Pietro Gori, e all’anonimo soldato che si rifiutò di sparare sui propri “fratelli”, invece no.

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