Le teste

Francesco Pelosi | Ritratti |
disegno di alpraz

Le teste sono lì sul bancone già da un bel po’. Lo si capisce dalla puzza che c’è nell’aria.
Due teste mozzate, belle tonde e chiare. Una ha un ciuffo rosso sulla fronte. Parla con accento francese. L’altra è quella di un topo con due grandi orecchie nere bidimensionali. Piatte, da qualsiasi angolazione le si guardi. E parla americano. Entrambe sono due vecchie teste, con le rughe gonfie a incidere i volti magri, come pagine di libri in una cantina allagata. E parlano. Parlano un sacco.
Stanno lì, a pochi centimetri da Big En che, al solito, dorme. Con la faccia sdraiata sulla mano e il gomito sul banco. Due rivoli di sangue, come cascatelle rosse, scendono fin sotto agli sgabelli, sul pavimento, dove stanno i due corpi a cui erano attaccate. Scomposti e abbandonati. Entrambi indossano un trench da giornalista o da investigatore e, cosa davvero strana, al fianco di ogni corpo c’è un cane che lo lecca piangendo. Sul corpo della testa francese batte la lingua di un cagnolino bianco, mentre sul corpo della testa di topo americana, quella di un segugio arancione. Strano colore per un cane, pensi mentre rimani a bocca aperta, sulla porta di quel bar che non c’è.
«Non si può chiudere?», fa allora una delle due teste, «C’è corrente, e ho il collo pieno di spifferi!» 

Poco fa, prima di entrare, hai incrociato sull’ingresso, in direzione contraria alla tua, un tizio imponente. Giovane, diversamente da quasi tutti gli avventori di quel bar che non c’é. Giovane e muscoloso, con un braccio meccanico e un occhio guercio. Dallo spadone gigante che portava sulla schiena – ma, in effetti, più che una spada era semplicemente un grosso pezzo di ferro – deduci che potrebbe aver reso lui il servizio ai due del bancone.

«Quel bastardo! L’ho sempre detto io che i fumetti giapponesi sono troppo violenti!»
«Hai perfettamente ragione! E poi non si capisce perché son tutti disegnati come noi… Voglio dire, quegli occhi stretti e a mandorla sono ben evidenti! E loro invece se li fanno tutti grandi e tondi… Come un occidentale con dei problemi!»
«Ma… veramente anch’io ho gli occhi grandi e tondi… Cosa vorresti dire, mangiarane?»
«Eccolo qua, il figlio degli imperialisti! Ma ti senti? Avete a malapena tre secoli di storia e vi credete di poter insegnare al mondo! Ladri, disperati e assassini… Così avete fondato la vostra nazione. Trasportando mandrie di negr… Emh… di africani per farvi costruire le case e la ferrovia. Patetici, bifolchi e razzisti!»
«Razzista io? Ma se sono quasi completamente nero! E poi, senti chi parla: ti ricordi di quando andavi in Congo o in Cina? E il razzista sarei io?!»
«Brutto ratto schifoso, saccente e piagnone! Adesso ti…»

Ma la testa francese non riesce a finire la frase. Big En ha il sonno agitato stasera. Sposta il gomito di scatto, con l’istantanea meccanica dei dormienti, e colpisce la testa di topo che va a sbattere contro l’altra, come due bocce. Ed entrambe caracollano giù, accolte quasi senza suono dalle rispettive pance. I cani, entusiasti, smettono di leccare le carcasse e si dirigono ognuno verso la testa del proprio padrone e riprendono, con ancor più vigore, il lavoro di lingua.
Ti volti e guardi fuori dalle vetrate, sulla strada. Si annuncia un temporale. Il tizio con lo spadone è un’ombra immobile in fondo al borgo. Il vento gli fa volare il mantello. Di colpo un lampo lo illumina e ti sembra di intuirne lo sguardo. Oscuro e tremendo. Pochi secondi dopo, il tuono ti spettina i pensieri, gettandoli molto lontano da lì.

Sei nel mondo della morte. Un mondo che non capisci, che non puoi capire, finché sei qui, nella vita. Hai molte domande, molte richieste, ma il mondo della morte è silenzioso. Non dice, non fa, non esulta né piange. Il mondo della morte è sereno, sereno come la sera che avvolge di cenere il sole. Niente rimane quaggiù, niente prosegue. È una terra di domande infinite e di un’unica risposta, che non saprai mai. Sarai laggiù ma mai più qui. Sei qui e da qui non sarai mai laggiù.

Quando ti riprendi, il tizio con lo spadone non c’è più. Il borgo è vuoto e la pioggia comincia a scendere. Big En dorme ancora e non ha fatto CHOW. Ma il tizio con lo spadone è scomparso ugualmente.
Alle tue spalle, un rumore piccolo e insistente, un minuscolo sciabordio indecifrabile. Mentre ti volti, lentamente, ascolti meglio e appena prima di vedere, associ al rumore un ricordo. Le tue mascelle che masticano una bistecca. I cani si stanno mangiando le teste. Ognuno quella del suo padrone, con grande amore.

Esci di corsa da quel bar che non c’è. Hai un freddo indicibile nelle ossa. Ma fuori fa caldo, anche se piove. È già estate. Fai appena qualche passo e lo senti: Big En si è svegliato.

«CHOW!», fa, finalmente.

E così scompare. Scompare il bar e scompaiono i cani con quel che resta delle teste. 
Sul muro, in mezzo alla notte umida, rimane una scritta:

«Pur sapendo che tutto perisce, dobbiamo costruire nel granito le nostre dimore, fossero anche quelle di una notte».

Ti avvicini per leggere meglio, ma come un soffio, scompare anche lei.
Rimani tu, questa volta. Solo tu.
Nemmeno il tuono nel cielo.

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(Quasi)