La promessa del regno

Boris Battaglia | Una pietra sopra |

Uno

Nei racconti biblici (e i libri cosiddetti “narrativi” – cioè Giosuè, Giudici, Samuele uno e due, i Re uno e due – sono effettivamente i miei preferiti) il sacrificio cruento è fondamentale mezzo di comunicazione. Necessario non solo per la comunicazione tra dio e il suo popolo, ma soprattutto tra tutti gli appartenenti a quel popolo. I sacrifici, ci insegnano poi i libri apodittici (il Deuteronomio su tutti), sono di tre tipi: l’olocausto, in cui la vittima viene sgozzata e bruciata su un qualche altare a tutto beneficio della divinità; il sacrificio di comunione, in cui la vittima sgozzata è fatta a pezzi e condivisa tra tutta la comunità in un banchetto; il sacrificio espiatorio in cui la vittima resta a uso dei sacerdoti. L’altra sera cercavo tra i miei scaffali troppo ingombri qualche libro da lasciare in giro (ho bisogno di fare posto, per quieto vivere familiare quando le librerie minacciano di crollare – già successo – devo provvedere alla sicurezza di tutti) e mi capita tra le mani un libro di Kyle Baker. King David. Come sempre interrompo quello che stavo facendo e mi metto a rileggerlo. Non è per caso che mi torna alla mente un film di Cronenberg. Allora mi rivedo il film.

Due

Eastern Promises (perdonatemi ma il titolo italiano mi fa proprio schifo), si apre con un sacrificio di comunione. Come era quello della Pasqua (Easter) che sanciva il punto più alto della coesione nazionale ebraica. Nella bottega del barbiere Azim (e non è un caso che la Pasqua sia strettamente legata, nella cultura ebraica, alla festa degli Azzimi) il boss Soyka viene sgozzato dalla mano innocente (è un ritardato) ma eterodiretta, è lo stesso Azim – suo zio – ad armarla di rasoio, di Ekrem. Potrebbe sembrare un’efferatezza gratuita. Ma non lo è. È una scena assolutamente necessaria, perché il sacrificio che rappresenta è indispensabile affinché si fondi la storia. Infatti. Due cose.
1) Il Regno non è mai stato così compatto come sotto la guida di Saul/Semyon. Ecco cosa non mi tornava. Quello di Cronenberg non è né una cristologia né un ciclo mosaico. Questo film racconta, nonostante l’apparente coesione del suo regno, la cronaca del fallimento di Saul, causato dei suoi peccati, e dell’ ascesa di Davide/Luzhin.
2) Il corpo sgozzato della vittima sacrificale viene diviso in comunione; nemmeno tanto simbolicamente fatto a pezzi da luzhin e dallo stesso poi usato come strumento di comunicazione, quando lo affiderà alle acque del fiume per portare un messaggio alle autorità poliziesche.
Passata questa soglia possiamo entrare nel vivo. Ti avviso. Ora saranno cazzi. Però se mi segui fino alla fine, probabilmente, la smetterai di preoccuparti della fedeltà o meno di un film al fumetto cui si è ispirato.

Tre

Il sacrificio mostrato nella sequenza iniziale del film stipula, se lo spettatore lo accetta e si fa carico della responsabilità che comporta, un patto di comunione tra lui e la narrazione. Viene sancito un rapporto strettissimo. Credo che l’unica distinzione qualitativa possibile sia qui, in questo rapporto. La distinzione tra storia e intrattenimento. L’intrattenimento non ti richiede sforzo, meglio non sapere nulla e assistere beatamente (e obnubilati… reificati diceva il buon vecchio Karl) alla messa senza disturbare l’officiante e senza esserne disturbati. La storia invece ti chiede di partecipare al sacrificio; addirittura di brandire l’arma da scanno e fuor di metafora, di conoscerne i meccanismi (non i trucchi del mestiere, intendiamoci). La storia ti richiede conoscenza. Quindi dolore e fatica. Questo rapporto, che sia tra dio e il suo popolo o tra la storia raccontata e chi la ascolta guarda o legge, nei libri narrativi viene chiamato berit. È un problema tradurre il termine berit. Dicono, almeno. Che oltre a quello di patto, ha anche il significato di promessa. Quella che i greci rendevano nelle loro traduzioni con il termine diatheke. Il testamentum dei latini. Il libro che, nella seconda sequenza, l’ostetrica Anna Khitrova riceve dalla ragazzina quattordicenne che muore di emorragia dando alla luce una bambina, altro non è che un testamento. Una promessa quindi. Escatologica. Intendiamoci: niente di evangelico. Il destino ultimo che il libro promette al suo popolo è un destino molto terreno. La promessa è quella del regno. Del potere sulla terra che calpestiamo. Già. Solo che per conoscerlo questo destino devi poter leggere il libro. Scritto in una lingua che Anna non conosce. Il diario lasciato dalla ragazza morta è in russo. Anna è di origini russe, ma ha perso la capacità di interpretare la lingua del suo popolo. A questo punto serve imprescindibilmente un interprete.

Quattro

E l’interprete, Anna lo cerca nel tempio. Il problema, se così si può dire, è che questa è l’epoca dei re. Non quella dei giudici e nemmeno quella dei profeti. Per inciso: il periodo monarchico è l’unico in cui c’è una almeno vaga corrispondenza tra le vicende narrate dai libri sacri e reali momenti storici. Nel tempio, il ristorante russo Trans-Siberian, Anna ci trova il Re. Saul. Però, poiché siamo al cinema, e qui – come ci ha insegnato Metz (La significazione nel cinema, Bompiani, 1995) – diversamente che nel fumetto, c’è differenza tra una cosa (qualunque essa sia) e la sua rappresentazione: qui, dicevamo, il re non è Saul è Semyon. Ed è un re terribile. Che non ha alcun interesse a svelare quanto scritto nel libro. C’è, a proposito del termine indicante la divinità nell’antico testamento, che sia Yahweh o Elohim o il cazzo che vi pare, tutta un’architettura di teorie teologiche che sostiene che la pronuncia di quel Nome, è consentita solo nel tempio. Cioè al cinema. E il re dovrebbe, secondo il Deuteronomio (17,14-20) piuttosto che comandare, obbedire: obbedire al testo biblico. Cioè alla sceneggiatura. E’ questo il peccato di Semyon, quello che lo perderà. Che se ne fotte del libro. Tanto da rifiutarsi di seguirlo e di bruciarlo in un braciere. Eccoci. Andiamo con ordine e facciamola breve. Saul regna su Israele come Semyon comanda sui Vory. Saul ha un figlio, Gionata, inquieto e irresponsabile; Semyon ha un figlio, Kirill, capriccioso e instabile. Saul ha al suo servizio un bravissimo e giovane suonatore di cetra; Semyon ha al suo servizio l’autista Luzhin. Gionata e Davide diventano amici; Kirill e Luzhin sono amici. Saul obbliga Davide ha prendere come moglie sua figlia Mikal, Kirill obbliga Luzhin a prendersi una prostituta del bordello si Semyon. Davide sconfigge il gigante Golia e diventa un grande generale nella guerra contro i filistei, al punto che Saul invidioso del suo successo ceca senza successo di farlo uccidere da dei sicari. Luzhin si rivela un ottimo stratega nella guerra contro i filistei/ceceni: magistralmente si sbarazza del corpo di Soyka. Tanto che Semyon, invidioso ai ceceni, lo vende ai fratelli del Soyka ucciso nella prima sequenza. Lo scontro nel bagno turco tra Luzhin nudo e praticamente inerme e i due colossi ceceni che vogliono vendicare Soyka, non è la rappresentazione simbolica del martirio cristologico. Quanto piuttosto la raffigurazione concettuale dello scontro tra Davide e Golia. E qui si introduce una questiona nodale.

Cinque

Con l’eccezione dei sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico scritti da Ludovico Geymonat per Garzanti negli anni Settanta, trovo tutte le storie della filosofia scritte o curate da filosofastri italici (penso ai quattro volumi di Abbagnano per la Utet, ai cinque della Storia della filosofia antica scritta per Vita e Pensiero da Reale o, ancor peggio, ai sei volumi della Storia della filosofia curata da Rossi e Viano per Laterza) di una tristezza accademica senza eguali. Lo so che per te la filosofia è un’astrusità da segaiolo. Tu sei uno che i fumetti li fa o che li legge, sei uno che le storie le scrive o le legge; ti occupi, insomma, di problemi reali tecnici, necessari. Non ti preoccupano i massimi sistemi. Ti stupirò. Le fondamenta, il materiale grezzo, l’armatura del cemento di ogni riflessione filosofica viene direttamente dal mondo nel quale vivi. Persino dai problemi pratici del leggere o fare fumetti. Se non mi credi potresti provare a leggere due aurei libretti (intendiamoci: assolutamente discutibili nei contenuti, ma fondamentali nell’approccio) editi entrambi dal Saggiatore: Thomas Nagel, una brevissima introduzione alla filosofia (1989); Popkin e Stroll, Filosofia per tutti (1997). Ma. Cosa c’entra questo con quello che stavamo dicendo a proposito del film di Cronenberg? Ti avevo avvisato che non sarebbe stata breve.
Sai, durante il suo famosissimo processo del 399 a.c. Socrate sostenne che il motivo per il quale faceva filosofia era che «non valeva la pena vivere una vita senza indagine». Lo strumento principale di quest’indagine era per Socrate il dialogo. Unico mezzo che rendeva vitale lo sforzo continuo di correggere il moto di deriva del nostro pensiero e di tenere la rotta verso un possibile approdo… intendiamoci, un approdo che non sappiamo se esiste, ma che sappiamo possibile. Ecco. La questione è questa, semplicissima: come può un’immagine significare qualcosa e soprattutto come possono delle immagini raccontare qualcosa?

Sei

Mmh… eravamo rimasti alla sequenza magistrale nella quale Luzhin, nudo e disarmato, si scontra con i due energumeni ceceni nel bagno turco. Dicevo che, a mio avviso, quella sequenza è la rappresentazione dello scontro tra Davide e Golia; e che, se così stanno le cose, questo momento pone al centro della mia riflessione un problema ineludibile. Perché spezza la linearità del racconto biblico (perfettamente e quasi pedantemente rispettata invece da Baker nel suo King David) rappresentando con le stesse immagini e in modo sincretico, due momenti diversi e distinti. Nel racconto biblico Saul cercherà di far uccidere Davide dai suoi sgherri solo dopo che, grazie alla sconfitta di Golia, Davide diventerà così famoso da oscurare la gloria di Saul stesso; tanto che questi arriverà a temere Davide aspiri al suo trono. Nella sequenza cronenberghiana i due fatti (lo scontro con Golia e il tentativo di uccisione da parte di Saul, sono riuniti: se lo scontro tra Luzhin e i due ceceni è la rappresentazione dello scontro tra Davide e Golia, è anche vero che il mandatario dei due energumeni è Semyon. E c’è un problema ulteriore. Semyon fa credere ai due ceceni che vogliono vendicare la morte di Soyka, che Luzhin è Kirill. Alla fine della sequenza, dopo che Luzhin si sarà rimesso dalle ferite subite, scopriremo ulteriormente che Luzhin non è proprio colui che fin lì avevamo creduto fosse. La nostra situazione non era poi dissimile da quella dei due aggressori.
Qualcuno, di quelli che sparano cazzate sulle gazzette, ha detto che A History of Violence è il film meno sperimentale di Cronenberg. In realtà è il terzo capitolo di una riflessione epistemologica cominciata da Cronenberg nel 1999 con ExistenZ e terminata nel 2008 proprio con Eastern Promises. ExistenZ poneva il problema. Cioè: l’immagine, anche quando utilizzata in una struttura mimetica (non tanto i giochi creati da Allegra Geller, quanto piuttosto la stessa realtà in cui sia allegra che i suoi avversari “realisti” si muovono), è ontologicamente indecidibile (per non farti andare a cercare sul vocabolario: non si può dire, mai, se sia vera o falsa); quindi tutto può essere qualcos’altro. Ci sono certi, quelli convinti che un film o un fumetto prima si scrive e poi si disegna, che sono convinti che con la scrittura si possa mettere ordine in questa confusione ontologica. Nella fattispecie della sequenza di cui stavamo parlando: tra l’identità reale e il personaggio. Il tempo, nella rassicurante senile formuletta eisneriana dell’arte sequenziale: passato presente futuro, uno in culo all’altro, li rende certi di questo. Dicono: noi sappiamo chi è veramente Luzhin, cioè un agente di qualche polizia speciale, solo dopo quella sequenza, ma questo significa che lo era anche prima. Solo che non lo sapevamo. Quindi l’immagine Luzhin è decidibile, solo a un certo punto, ma decidibile. Cazzate da insegnate di sceneggiatura a una qualsiasi scuola di fumetto. Peccato che con Spider Cronenberg confuti questa semplicistica soluzione. Peccato per loro. Che noi lo sapevamo già. Dennis Cleg cerca disperatamente di dare linearità e decidibilità alla storia di cui è parte raccontata, ma lo farà con lo strumento sbagliato: la scrittura (vedremo come, se avrai la voglia di seguirmi, sarà invece Tom Stall a insegnarcene- con lo strumento giusto: l’immagine stessa- la decidibilità), proprio annotando tutto su un taccuino che custodisce gelosamente. Dennis cerca di ricostruire linearità temporale ala sua storia, ma la sua scrittura è fatta di segni indecifrabili. Scrive Gianni Canova nel suo saggetto su Cronenberg pubblicato per il Castoro (2007) che Spider «vanifica l’atto stesso dello scrivere come strumento di chiarificazione del senso e fa anzi della scrittura il luogo in cui il rapporto fra significante e significato si scardina irreparabilmente». È vero semmai il contrario. In Spider Cronenberg sostiene che non è possibile usare la scrittura come vuole la cultura (cristiano-platonica) occidentale per decifrare la realtà attraverso la decifrazione del rapporto tra significante e significato. Perché l’immagine, che è scrittura, è scrittura indifferente (la grapheion greca), cioè corrispondenza indissolubile tra significante e significato. Quindi indecidibile se si vogliono scindere i due piani.
Quando realizza questa verità Dennis Cleg accetta la propria follia, la condizione di non poter dire vera o falsa un’immagine, e –ormai consapevole come Alice che un libro senza immagini non serve a niente -si lascia ricondurre al manicomio

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(Quasi)