Treccine, mullet, ricci, lisci, lunghi, mesciati e persino a macchia di leopardo: il delirio dei capelli dei calciatori

Mabel Morri | Play du jour |

Il pettine è di colore giallo, a denti larghi.
È quello che di solito si usa per i capelli molto ricci.
A un certo punto in casa, quando ancora abitavo dai miei genitori, ne sono comparsi diversi, tant’è che nel bagnetto in comune con mia sorella nei ripiani del mobile a muro, due a testa dei quattro totali per tenere le nostre creme, gel, forbicine, pinze, assorbenti, smalti e trucchi, ne avevamo tre ciascuna.
Ancora oggi, sposate, con figli e nipoti, e i miei diventati nonni, li abbiamo.
Vado dai miei e trovo lo stesso pettine, vado da mia sorella uguale che da me.
Era un regalo di non ricordo quale shampoo o balsamo, o forse tinta di capelli, in ogni caso a un certo punto ne eravamo così pieni che molti venivano cestinati direttamente insieme alla plastica della confezione.
Ancora oggi è con quel pettine che decido la linea dei capelli bagnati dopo la doccia e l’inevitabile curvatura.
Coi 50 a vista – basta mettere la mano a visiera a metà fronte per vederli lì, non so quanto sorridenti ma sicuramente ironici – l’opzione di non asciugarli non è più valida a considerare la cervicale che gli anni del calcio mi hanno lasciato.
Alzo lo sguardo dallo schermo del computer, a fianco ho l’ipad su quale di solito guardo le partite su Sky a volume basso.
È appena finita Cagliari – Sampdoria e ci sono le interviste del dopo gara: i capelli del portiere doriano Audero e il ciuffo di Candreva non si sono smossi di un centimetro nonostante tuffi, voli, parate plastiche del primo, scivolate e corse spericolate sulla fascia del secondo.
Persino quando sto ferma al tavolo da disegno i miei capelli sono incontrollabili.
Come diavolo fanno, i calciatori?

Non ho mai particolarmente amato i miei capelli.
Continuamente ribelli, un mosso tra il riccio e l’ondulato che impazzivano con un po’ di umidità. Ho impiegato anni ad arrendermi all’evidenza che, non potendoli cambiare, dovevo conviverci e che questa convivenza fosse la più tranquilla possibile. È allora che ho scelto il taglio e la riga che a tutt’oggi porto ancora.
Non so nemmeno quanti parrucchieri abbia cambiato: quando mi è andata in pensione l’unica che me li tagliava come volevo io è stato un dramma.
Il quartiere è cambiato tantissimo. Piazzale Vannoni era il confine tra il borgo San Giuliano, quello felliniano, e la zona che inizia ad andare verso il fiume Marecchia: una volta, trent’anni fa, era quasi periferia, oggi è pieno centro. Piazzale Vannoni poi non ha più nemmeno la sua forma originaria. Al posto dell’edicola che mi ha visto crescere e appassionarmi ai fumetti, poco più in là, è stabile una palla gigante di quelle che di solito si attaccano all’albero di Natale: dentro ci si può sedere ma non lo fai mai nessuno.
Lì di fronte, sotto uno dei piccoli condomini che tra villette e villini che vanno a contenere anche quattro, cinque appartamenti, qualche vetrina ha visto svariati e folcloristici esercizi commerciali avvicendarsi. Uno però è rimasto sempre quello, nonostante anni e cambi di proprietà: il parrucchiere.
Quando ci andai con la foto di Paolo Maldini, uno che da giocatore insieme ad Andrea Pirlo a parte la variante barba non ha mai cambiato il suo taglio di capelli, il taglio me lo fece ma io non ci andai più.
Fino a David Beckham i calciatori avevano tagli di capelli tutti molto simili tra loro.
Nulla di trascendentale, le mode della società si rispecchiavano anche nel calcio, come se quest’ultimo fosse un collante, uno dei tanti mondi in un grande universo. Capelloni con basette e baffi nei Settanta, baffi e corti o scalati a mullet negli Ottanta, lunghi o corti nei Novanta. È quando arriva Beckham che questo equilibrio per cui era il mondo che dettava la moda si rompe, perché da quel momento in poi sarà lui a deciderla, la moda.
I Novanta sono gli anni del grunge e persino Paolo Maldini si fa crescere i capelli che aggiusterà di un paio di dita controllandone sempre la lunghezza variando gli accessori, come l’anno delle fascette nei capelli a mo’ di cerchietto.
Beckham no, lui cambia ogni anno. Ma è giustificato da una figaggine indecente e soprattutto diventa il marito di Posh Spice, Victoria, la in teoria più chic del fenomeno musicale di quegli anni, le Spice Girls.
Quando quello che oggi è un conservatore ultra credente, fedelissimo di Gesù e del suo culto e che partecipa ai vari family eventi leghisti, Nicola Legrottaglie, viene presentato come il nuovo difensore della Juventus, il suo ciuffo biondo è impossibile da non notare. Non solo: il suo abbigliamento con maglietta a manica corta rossa, pantaloni a righe e ciabatte in un mondo che ancora, nel 2003, quanto meno pretendeva una camicia fece davvero pensare che il punto di non ritorno fosse arrivato. Per anni Legrottaglie si è difeso dicendo che quel suo presentarsi vestito a quel modo fosse dovuto al tempismo del suo procuratore, reo di averlo fatto salire sul primo aereo disponibile per Torino perché la sua avventura al Chievo Verona, nel quale si era distinto arrivando anche a guadagnare la maglia azzurra della Nazionale, era finita per diventare il nuovo acquisto pop della Juventus.
Vero o meno che sia, quando nel film Vi presento Joe Black la zazzera bionda di Brad Pitt flirtava con Claire Forlani e l’imprenditore Anthony Hopkins ci propiziava sul significato dell’amore su un elicottero privato come solo Berlusconi dei tempi migliori, chi credete che avesse lanciato la moda di quel ciuffo piastrato con riga di lato contagiando pure la moglie Posh Spice che ci faceva i concerti con quel ciuffetto che si infilava nel rimmel delle ciglia?

I barbieri brasiliani, si racconta, impazzirono.
Nell’estate del 2002 si compie una delle peggiori combinazioni politiche del calcio che vedono il Mondiale giocarsi in Giappone e Corea del sud. Ufficialmente, Joseph “Sepp” Blatter, il capo dei capi della FIFA da decenni, dice che il mercato asiatico è in espansione e un evento come il Mondiale è una vetrina incredibile, così come nel 1994 fu per gli USA; ufficiosamente, non è dato sapere quale accordi economici ci fossero, ma dovevano essere tanti perché quello fu il Mondiale nel quale l’Italia di Giovanni Trapattoni incontrò l’arbitro venduto Byron Moreno che con un arbitraggio fuori da ogni regola permise alla Corea di vincere sugli azzurri.
In quel Mondiale però ci fu anche il taglio di capelli di Ronaldo, quello vero, il Fenomeno.
Nella finale contro la Germania quel triangolo di capelli sopra la fronte fu un fatto ormai impossibile da nascondere e la vittoria brasiliana non aiutò i poveri barbieri che si ritrovarono a imparare e riparare a tutte le richieste dei clienti che volevano per avere lo stesso taglio del Fenomeno. Anni dopo, Ronaldo ha confessato che quell’assurdo taglio avrebbe distolto l’attenzione dall’infortunio che in quel mese non gli consentiva il suo miglior rendimento.
Mentre Beckham passava da ciuffi biondi a treccine, da tagli a zero a mullet, da crestine mohawk a sobri e fluenti semplici capelli lunghi, dal taglio da Mohicano al biondo ossigenato, gli altri faticavano a stargli dietro.

Taribo West è un ex giocatore nigeriano che sbarcò a Milano nell’estate del 1997.
Un difensore centrale muscoloso e irruento, con lui qualche caviglia saltava bene.
Coppa UEFA a parte vinta contro la Lazio nella finale di Parigi del 1999, ciò che nei ricordi rimane di lui sono le treccine: spesso colorate e raccolte in due code clownesche, lasciate libere oppure raccolte in una coda.
Una moda, quella delle treccine che naturalmente non lasciò indifferente il nostro Beckham ma nemmeno altri giocatori di quegli anni, da Ronaldinho a Ronaldo il fenomeno. Moda che per altro non ha mai cessato davvero di riproporsi nelle capigliature dei calciatori: l’uruguaiano Diego Laxalt, un passato tra Genoa, Milan e Torino, l’ha fatta diventare un suo segno distintivo, il brasiliano Neymar le ha avute per un certo periodo e il colombiano dell’Atalanta Duvan Zapata le porta ancora oggi.
Negli anni italiani Paul Pogba, francese all’epoca della Juventus, ha regalato ai tifosi alcune delle pettinature più strambe mai viste: la cresta bicolore e il leopardato con il quale campeggiò anche sulla copertina del numero 4 dell’aprile 2016 del “Guerin Sportivo” è scolpita nella memoria.

L’Euro 96 ha avuto momenti intensi. Molti lo ritengono il primo Europeo pop, quello che si avviava verso il nuovo millennio lasciando tornei sgranati sulle pellicole dei filmati e anche nei ricordi. Non solo perché la favola della Danimarca, campione d’Europa nel 1992, era coincisa con la dissolvenza della Jugoslavia della quale prese il posto pur non essendosi qualificata, ma proprio perché quella guerra era finalmente finita, forse il mondo come sempre andava avanti e prospettava meraviglie. La moda iniziava ad avere un ruolo importante: capelli, maglie, spot televisivi della Nike strepitosi, scarpini, tutto era pop. E, soprattutto, giravano un sacco di soldi.
Una delle esultanze di quell’Europeo che passò alla storia fu quella di Paul Gascoigne, giocatore inglese tanto geniale in campo quanto dissoluto nella vita, mai mancati per altro le analogie con un altro che il suo talento lo ha sprecato spegnendosi relativamente giovane, il gallese George Best.
È una giornata calda e temperata a Londra il 15 giugno. Wembley si riempie di sciarpe e bandiere inglesi e scozzesi. In un memorabile Scozia – Inghilterra, partita già delicata di suo, in un Europeo giocato proprio in Inghilterra, la seconda rete dei leoni è un formidabile mix di intuito, talento e tecnica: un arcobaleno splendido segnato da Paul Gascoigne. Che esulta lanciandosi a terra, mettendosi supino a braccia aperte, urlando mentre i compagni Alan Shearer, Steve McManaman, Jamie Redknapp mimano la cosiddetta “sedia del dentista”, una pratica che vede tanto alcool e donne impegnate a.
Gascoigne naturalmente aveva già fatto parlare di sé.
Se in quella seconda partita del girone aveva reso celebre nel mondo “la sedia del dentista”, nella prima contro la Svizzera e terminata con un pareggio si era presentato durante l’inno nazionale “God save the Queen” biondo ossigenato.
Sono trascorsi quasi trent’anni eppure se Gascoigne fu il primo ossigenato nel calcio ancora oggi molti lo riprendono: ai recenti Europei itineranti l’inglese Phil Foden e lo svizzero di origine albanese Granit Xhaka sono scesi in campo così, non ultimi gli azzurri Federico Bernardeschi e Jorginho che dopo la vittoria si sono rifatti il look.

Marek Hamsik non gioca più nel Napoli e il suo 17 è sulle spalle di un altro giocatore, nonostante questo la cresta che lo caratterizzava è un ricordo ancora vivido.
Anche la cresta è un taglio che ogni tanto riappare inconfondibile e sorprendente.
L’italiano di origine egiziana Stephan El-Shaarawy negli anni milanisti ne sfoggiava di importanti, oggi negli anni della maturità a Roma l’ha addolcita molto.
Dai capelli lunghi all’intramontabile mullet, dal rasato e disegnato alla mezza coda, i tagli dei capelli dei calciatori a volte sono deliranti.

Ottobre è il mese della nebbia, almeno qui sul mare.
Basta poco, anche solo uscire dal cancello per lasciare il bidoncino della spazzatura, e i miei indomabili capelli si increspano.
Non serve nemmeno più andare dalla parrucchiera a sfogliare le riviste scadenti sul gossip dei vip, basta un clic e una ricerca di pagina.
Vestito elegantemente, curato in ogni dettaglio, il mio coetaneo David Beckham mi mostra il suo ultimo taglio: un’onda di capelli biondo castano che si appoggiano dolcemente, lasciano la riga precisa su un pizzetto da moschettiere che dovrebbe renderlo ridicolo e invece gli accentua le fossette e il perimetro della barba.

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