Silenzi e complicità

Ugo e Michel | La grande abbuffata |

(Le illustrazioni sono di Lucia Lamacchia, che è responsabile di quanto segue almeno quanto lo sono Ugo e Michel.) 

E niente.
Non mi ha spiegato un cazzo.
Michel e Christine hanno svuotato due piatti di bucatini a testa e sono usciti senza neanche dire se avevano sentito qualcosa di strano nel ragù. Michela e io siamo rimasti a casa ammutoliti. Si sono alzati e hanno salutato così in fretta che non abbiamo fatto in tempo nemmeno a mettere il broncio.
A volte temo che l’uomo con cui ho scelto di vivere mi dia per scontato. Sa che ci sono sempre, sa che può parlare con me tutte le volte che vuole, ma, CAZZO!, non vuole parlare con me quando ha un segreto da raccontare.
Che poi nelle relazioni i segreti sono importanti. Io le persone che si professano poliamorose e si raccontano tutto mica le ho mai capite. Davvero far sapere a chi ami quando scopi, e magari anche con chi, ti rende più libero e felice? Michel e io viviamo una relazione monogamica ed esclusiva nella quale ognuno dei due scopa con chi vuole. Quando vuole. A volte anche in questa casa e in presenza dell’altro. Lo sappiamo. Ce lo siamo detti con chiarezza. Sappiamo che nessuno dei due possiede l’altro. Sappiamo che nessuno dei due sarebbe felice senza l’altro. Sappiamo anche che nessuno dei due potrebbe vivere con gioia sapendo che il corpo che ha tra le braccia è l’unico al quale aderirà pienamente e con cui scambierà secrezioni per il resto dei suoi giorni. Ci amiamo e sappiamo che bisogna pur che il corpo esulti.
Eppure, tutta quell’esultanza deve rimanere, per quanto possibile, un affare privato. Abbiamo trovato un equilibrio quasi perfetto, fatto di dialogo, amore, liti furenti, risate e soprattutto quell’intricata matassa di intima comprensione che ci piace chiamare complicità. Ma io non voglio conoscere l’intensità dei suoi orgasmi quando non partecipo al gioco. E neppure lui dei miei. Che poi è un attimo che quella che doveva essere la condivisione di un momento di gioia e appagamento diventi l’innesco di una gara a chi ce l’ha più lungo. Quando scoppia una di queste gare, mica solo maschili, di confronto delle dimensioni, poniamo fine al dibattimento con un perentorio: «Ce l’hai più lungo tu? Bene! Usiamo il tuo.»
Ci si diverte un sacco.
Va be’, mi sto un po’ perdendo. Sono molto nervoso. Ho la sensazione che Michel mi dia per scontato. Mi sarei aspettato che, come minimo, mi facesse un gesto complice, indicandomi una stanza appartata. Lì poi mi avrebbe detto della statua, di questa Christine e del suo accento francese, e di quella fottuta lettera di cui nessuno sembra sapere niente.
Invece… un cazzo.
Non mi ha spigato un cazzo.
Però, almeno, non sono l’unico nervoso. La storia del mezzo gaudio è un’enorme stronzata, ma vederla che si agita in balcone, accendendosi una sigaretta dietro l’altra, è quasi rilassante.
La fisso un altro po’.

«Michela, spegnila bene quella cazzo di sigaretta!», strilla Ugo sporgendosi dalla sedia verso il balcone della cucina, «Hai schiacciato il filtro!».
Michela sobbalza appena. Cerca di centrare la sigaretta sulla piastrella, ma il tacco è sottile e non ha una buona mira. «Poi spazzo e tiro su tutte le cicche. Passo pure lo straccio.», si scusa, «Non avete un portacenere in casa…».
Alle elementari Ugo veniva spesso ripreso dalla maestra Lisa perché oscillava sulla sedia. Sollevava le gambe anteriori dal pavimento e si dondolava ritmicamente. Di solito il rimbrotto dell’insegnante lo spaventava al punto da farlo cadere. E a quel punto finiva sempre dietro la lavagna in punizione. Cose dello scorso millennio che, a raccontarle oggi, emanano lo stesso odore di un rigattiere male in arnese.
Lo sta facendo anche adesso. Dondola ritmicamente con tutta la sedia, quando Michela lo chiama. Lo spavento gli fa perdere l’equilibrio e picchia la testa contro il muro alle sue spalle. Esattamente nello stesso punto che ha sbattuto sulle piastrelle un paio d’ore fa.
La risata che Michela non riesce a trattenere spegne sul nascere la bestemmia che sta increspando le labbra dell’uomo.
«Dai, Ugo!», ordina, «Smetti di giocare e andiamo a vedere cosa sono andati a fare quei due?»

Cazzo. Che male la testa. Continuo a picchiarla. Sono sicuro che se fossi calvo avrei un livido grande come un uovo all’occhio di bue. Nella sua forma qualcuno potrebbe vedere una macchia di Rorschach e leggerci del senso.
«Cosa ci vedi, tu?»
«Un bambino in altalena.»
«E poi?»
«Un plesiosauro che si avvicina alla superficie dell’acqua.»
«E ancora?»
«Un martin pescatore che ordina due birre.»
«E?»
«Una macchia, cazzo, una macchia!»
Quanto ci mette ‘sto taxi ad arrivare. Dai, Plutone 47, veloce. Si torna da quei cialtroni di “Cash Art”.

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(Quasi)