Un salto tra le opere minori di Howard Chaykin: Wolverine e Guy Gardner

Federico Beghin | Affatto |

Nel mio diario di un anno difficile c’è una paginetta dedicata a Howard Chaykin. Più precisamente, si tratta del 4 dicembre, il giorno in cui ho deciso di investire otto euro sull’uscita autunnale di (QUASI), proprio quella che raccoglie, oltre ai vari articoli, le interviste a Chaykin e a Carlos Giménez. Se del secondo temo di non aver ancora letto alcunché, il primo lo conoscevo già, grazie a un “incontro” abbastanza casuale avvenuto quando avevo diciassette anni ed ero diventato da poco un lettore di comics fidelizzato, dopo un passato tra Disney, manga e pochissimi supereroi di carta (in tv e al cinema, invece, parecchi).

L’autore statunitense ha lavorato e lavora come sceneggiatore e come disegnatore, a volte contemporaneamente, e ha legato il proprio nome tanto a Marvel e a DC Comics quanto a sue creazione. Oltre che del mondo del fumetto, con una certa riluttanza ma con la consapevolezza di dover pur campare, ha messo il proprio talento a disposizione della televisione, ma è proprio il Chaykin della nona arte quello che ho conosciuto e che mi ha colpito. E pensare che l’ha fatto con un’opera che lui stesso definisce “alimentare” (liquida così molte delle cose mainstream che ha realizzato). Infatti, nella lunga l’intervista, il fumettista mette in evidenza l’insofferenza nei confronti dei meccanismi che le major usano per ingraziarsi e manipolare i lettori, per costruirsi un pubblico che si lasci abbindolare e coccolare da stratagemmi narrativi collaudati. Trucchi che, da un lato, seducono il consumatore, portandolo a seguire la continuity dei supereroi, e, dall’altro, imbrigliano i creativi. Duole dire che anch’io ero stato irretito nel “sistema”, ma non tutto il male venne per nuocere, visto che seguendo la corrente arrivai a Chaykin.

Era il 2009. Dopo aver visto il film X-Men le origini: Wolverine, volevo leggere qualcosa sull’artigliato della Marvel. Ricordo che comprai vari spillati editi da Panini Comics, quelli che erano subito disponibili sullo scaffale della fumetteria e non per forza in ordine cronologico, e iniziai a leggere. Fu difficile riuscire a salire sul treno in corsa, cercavo di restare aggrappato al flusso delle storie facendo del mio meglio. Per quanto tentassi di ricostruire nella mia mente i fatti, tra crossover, tie-in e mega eventi, affidandomi agli editoriali presenti negli albi, mi sentivo spaesato, anche perché le riviste erano antologiche e raccoglievano serie diverse, che spesso non procedevano in sintonia. A un certo punto, la fortuna girò dalla mia parte. Trovai “Wolverine” 222, un numero con due soli racconti abbastanza lunghi e tutto sommato autoconclusivi. Finalmente potevo leggere qualcosa che avesse un senso compiuto! A colpirmi particolarmente fu L’uomo nel pozzo (Wolverine: The man in the pit, 2007), testi di Jason Aaron e disegni di Howard Chaykin.

Immagina: torno a casa con il mio spillato sotto braccio, lo apro, inizio a leggerlo e mi vedo davanti un tizio, un signor nessuno, che alla mattina si sveglia e va a svolgere il proprio lavoro, ossia crivellare Logan di colpi d’arma da fuoco, mentre il mutante è costretto a starsene sul fondo di un pozzo a subire e a rigenerarsi. Con il senno di poi posso dire che forse Aaron, che comunque sa essere autore tagliente ed efficace, si è consultato con il disegnatore assegnatogli prima di completare la stesura dell’episodio, perché sembra veramente camminare sul sentiero tracciato dal collega. Frasi secche, cinismo, violenza e un’atmosfera malata catturata e riprodotta con vignette che trasudano cattiveria insensata, per lunghi tratti accettata passivamente da Wolverine, alla quale ovviamente alla fine segue la punizione.

I due autori, ma soprattutto il disegnatore, mettevano in risalto l’essenza del personaggio partendo da un’angolazione insolita: se ne stava lì, nel pozzo, nudo e sforacchiato dai proiettili, ridotto ai minimi termini, proprio quelli che bastavano per identificarlo, per farne un archetipo. E Chaykin lo raffigurava proprio senza mezze misure, con un tratto molto diverso rispetto a quello degli artisti che ai tempi frequentavo più assiduamente, ossia Simone Bianchi, Jim Lee, Steve McNiven, Mark Bagley e Ivan Reis, giusto per fare qualche nome. Mi colpirono i segni graffiati che contornavano i volti degli individui, gli spigoli che ne evidenziavano le ossa ed erano metafora di asperità caratteriali, i riccioli fuori posto e, più di tutto, l’ammasso di peli e sangue che un tempo era noto come Arma X. Nel dettaglio, una splash-page lo ritraeva accovacciato e privo del costume, mentre digrignava i denti e soffriva in silenzio, uno sfortunato animale in gabbia. Nelle varie tavole c’erano gli elementi che contribuiscono a scheggiare le figure, a renderle vere, di carne e non di plastica, e che, mutatis mutandis, in seguito avrei ritrovato in altri fumetti disegnati e in alcuni casi sceneggiati da Chaykin.

A tal proposito è necessario precisare che di questo celebre autore nel corso degli anni ho letto le opere mainstream, cioè quelle “alimentari”, più Black Kiss. L’ultima che ho recuperato, proprio dopo la lettura dell’intervista, è Guy Gardner: Danni collaterali (anche questa uscita negli Stati Uniti nel 2007).
Undici anni dopo L’uomo nel pozzo, una storia marginale, disimpegnata e forse dimenticata dal suo stesso autore è riuscita a farmi rivivere le emozioni che Chaykin mi aveva fatto provare disegnando su testi di Aaron.
È un fumetto con poca introspezione e tanta azione punteggiata di alcune battute al vetriolo e di qualche salto tra la vita civile del protagonista e quella in costume, in cui la Lanterna Verde più sfigata che ci sia si ritrova ad arbitrare una guerra interplanetaria, pur non essendo assolutamente all’altezza del compito. Se nell’episodio di Wolverine a folgorarmi fu la scarnificazione estetica, alla quale era stato sottoposto il mutante canadese, a stupirmi in Danni collaterali è stata la ridicolizzazione di Gardner. Ma di che razza di eroe stiamo parlando? Guy è un ragazzo borioso, egocentrico, acido, cinico e polemico; in più viene da una serie di anni difficili che hanno ulteriormente peggiorato il suo carattere. Per cercare di voltare pagina o semplicemente per pensare ad altro, organizza un appuntamento galante dopo l’altro finché la guerra diventa il terzo incomodo. Si può facilmente immaginare con quale spirito si getti nella mischia…
Da par suo, con linee granulose che modellano sorrisi stiracchiati e grida a metà tra rantoli e ululati, il fumettista mette in scena un uomo inetto e scaltro, disgraziato e fortunato, caustico e infantile. Mostra un coacervo di contraddizioni ambulante a cui ne capitano di tutti i colori, un minchione che quando cerca di fare la cosa giusta sbaglia, ma quando procede a tentoni la azzecca. Un ragazzone insofferente alla cazzate, che tira a campare, vive alla giornata e, pur non essendo gentile, è tremendamente efficace. Di riffa o di raffa porta a casa il risultato.

Forse ho capito che cosa ha lasciato il segno dentro di me, quando ho letto quest’avventura di Guy Gardner: si tratta nuovamente dell’angolazione scelta per raccontare un capitolo secondario della parabola esistenziale di un essere umano di poco conto – certo, è una Lanterna Verde, ma mica è Hal Jordan, lui sì che è figo. Chaykin si è posto di lato, di sbieco, per cogliere l’essenza del personaggio, così come ha fatto quando si è calato nel pozzo insieme a Logan per visualizzarlo. Allora io non posso fare a meno di vedere dell’impegno e della dedizione in questa mossa e mi viene da chiedermi: se un autore, da due lavori per cui sente di tradire se stesso e di essere trattenuto come se avesse addosso una camicia di forza, riesce comunque a tirare fuori qualcosa di interessante in un caso con il disegno e nell’altro con la scrittura, che cosa può fare quando scrive e disegna liberamente? Il mio proposito per il 2022 è cercare di scoprirlo, avventurandomi nella bibliografia indipendente di Howard, magari partendo dalla rilettura di Black Kiss per poi proseguire con American Flagg! e tutto il resto.

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