“L’hai poi assaggiato il Bloody Mary?”, ovvero un anello per il vampiro

Boris e Paolo | Strani anelli |

Nel 2001 l’Oscar al miglior trucco e acconciatura è andato a Il Grinch, film dell’anno precedente, da un picture book del Dr. Seuss, diretto da Ron Howard e interpretato da un Jim Carrey in stato di grazia. Il premio, meritatissimo, è stato soffiato a L’ombra del vampiro di E. Elias Merhige, anch’esso candidato.
Se non ti ricordi quel film, non è grave. Nonostante il cast importante – gli interpreti principali sono John Malkovich e Willem Dafoe – non è un granché. Però, si sviluppa intorno a una gran bella idea.

Quando, nel 1922, il trentaquattrenne Friedrich Wilhelm Murnau deve promuovere Nosferatu, il suo capolavoro, le prova veramente tutte. Ha tratto quel miracolo del cinema da Dracula di Bram Stoker, senza però aver ottenuto i diritti di adattamento del romanzo. Non si sa se i nomi dei personaggi e l’ambientazione siano stati modificati per cercare di depistare una causa di violazione di copyright (che poi regolarmente si sviluppò) o per rendere più vicino al suo pubblico naturale un film costato poco, realizzato da un regista tedesco, per un pubblico tedesco. Fatto sta che la storia di Stoker viene modificata qua e là e il vampiro misteriosamente diventa il conte Orlok.
A questo punto, Murnau e la casa di produzione provano, in ogni modo, a promuovere il film. Innanzitutto, poco prima della distribuzione di Nosferatu, la rivista “Bühne und Film” dedica un ampio servizio fotografico al film di Murnau, riservando un grande spazio a fotogrammi tratti dalla pellicola. C’è perfino un’immagine dell’inquietante Orlok, ricurvo e spaventoso, con terribili mani ungulate, seduto in giardino. Viene poi organizzata una festa in costume presso il cinema Marmorsaal, all’interno dello zoo di Berlino: il 4 marzo 1922, tutti gli invitati alla prima proiezione della pellicola devono abbigliarsi in stile Biedermeier, per partecipare a “Das Fest des Nosferatu”. Infine ci si gioca un meraviglioso equivoco sul nome dell’attore incaricato di interpretare il primo vampiro della storia del cinema: si chiama Max Schreck, un nome che, in tedesco, suona un po’ come Massimo Spavento.

L’ombra del vampiro parte proprio da quell’equivoco. Con un po’ di trucchi di montaggio, uso di stilemi dell’impressionismo, cartelloni da cinema muto per gestire gli scarti temporali, sviluppa un approccio narrativo che negli anni successivi avremmo chiamato, con sempre maggior disinvoltura, docufiction. Racconta la storia del difficile rapporto tra Murnau e il vero vampiro che sta usando per realizzare il film e per il quale si è inventato il personaggio Max Schreck.
Ora, quel film non me lo ricordo troppo bene e non mi era nemmeno piaciuto molto, ma avevo trovato interessantissima l’ossessione per il cinema che, oltra a spingere Murnau a imprese folli e pericolosissimi, travolgeva il vampiro che, pur di esistere sulla pellicola, nella sua foga distruttrice obbediva agli ordini del regista.
La morte arrivava precisa e puntuale con i raggi del sole.

Ho visto il sole uccidere vampiri centinaia di volte. Il primo a morire così in un film è stato il conte Orlok. Il primo che ho visto io, da ragazzo, è stato Christopher Lee in Dracula il vampiro di Terence Fisher (1958).

Ricordo morti epocali. Adesso provo a elencarle. Bada arrivano quasi sempre alla fine del film e il vampiro muore. Se hai paura degli spoiler devi fare due cose: salta questo elenco e evita i film di vampiri, perché sono prevedibili.

  • Il duello finale contro la banda di vampiri prima delle trasfusioni salvifiche che garantiscono l’happy ending de Il buio di avvicina di Kathryn Bigelow (1987);
  • l’alba che mette fine alla lunga notte di combattimenti al “Titty Twister”, il locale in cui si sviluppa la seconda metà, quella più folle, di Dal tramonto all’alba di Robert Rodriguez (1996);
  • i Vampires di John Carpenter (1998) arpionati nel loro rifugio e trascinati sotto il sole del deserto;
  • la gioia della fine di Godric, antichissimo vampiro con l’aspetto di un ragazzino e i poteri di un dio, sotto i raggi di un sole da cui ha dovuto nascondersi per oltre duemila anni e che ora finalmente può sentire sulla pelle e nel corpo;
  • i minions che ammazzano involontariamente il conte Dracula svegliandolo per festeggiare il suo compleanno, nel film omonimo di Pierre Coffin e Kyle Balda (2015);

Mica si può rimanere a becco asciutto mentre si inseguono gli anelli cremisi dei vampiri. Il Bloody Mary non mi è mai piaciuto. Se deve sembrare sangue, che sia succo di pomodoro condito.

Ecco. Adesso Paolo mi ha piantato qui, con questo bel bicchierone pieno di liquido rosso e guarnito di sedano e carota e se n’è andato. Tocca a te, ha detto. Vabbè, però è stato gentile a prepararmelo il Bloody Mary: lo sa che a me piace un sacco. Anche perché, se deve sembrare sangue che attira i vampiri, è probabilmente l’unico cocktail che ha con il loro mondo un collegamento diretto. Conoscerai, di sicuro, la leggenda che lega l’origine del nome della vodka stemperata nel succo di pomodoro a Maria Tudor, ma ce n’è un’altra, meno famosa, che – oltre a piacermi di più – fa perfettamente al caso nostro. È una specie di storia dell’orrore. C’era questa ragazza di nome Mary, che venne seppellita viva, per errore, e che mentre l’aria le veniva meno, lanciò una maledizione molto potente. Se la invochi tre volte, Bloody Mary, Bloody Mary, Bloody Mary, guardandoti allo specchio, ti apparirà, nelle sembianze di una affascinante assassina e per te non ci sarà scampo, berrà il tuo sangue. C’è anche un film, Urban Legend 3, che ne racconta la storia. Il film è diretto da Mary (guarda caso!) Lambert, che qualcuno ha paragonato a Kathryn Bigelow… vabbè io il suo Pet Sematary (quello del 1989) l’ho anche apprezzato, ma da qui a paragonarla alla regista di Il buio si avvicina… che poi la Lambert, pur bazzicando alla grande l’horror, film sui vampiri non ne ha fatti mai. Però è stata la regista del video Like a Virgin di Madonna, e tu lo sai che i vampiri maschi prediligono il sangue delle vergini (il Virgin Mary è la versione analcolica del Bloody). Che poi mica è vero. Cioè, è un’invenzione di Andy Warhol e Paul Morrissey nel film Blood for Dracula del 1974.

Si inventano una badilata di cose, questi cinematografari. Non è un caso che l’elenco delle morti di vampiri fulminati dalla luce del sole che ti ha fatto Paolo sia tutto di sequenze cinematografiche o di telefilm (il Godric di True Blood). Anche questa cosa, che la luce del giorno uccida i vampiri, se l’è inventata uno del cinema. Prima di questa invenzione i vampiri non morivano al sorgere del giorno. Prendi il Dracula di Bram Stoker, è un predatore notturno, la luce lo infastidisce. Vado a memoria, ma mi sembra che almeno due (forse tre volte) venga colpito da raggi di sole casuali. Non ne è mai né ferito né ucciso. Solo infastidito. Perché per Bram Stoker, che riprende il folklore popolare, i vampiri sono una specie di predatori naturali dell’uomo, la novità che innesta su questo topos leggendario è la sessualità. Chi ha splendidamente compreso tutto questo è stato Tony Scott con il suo Miriam si sveglia a mezzanotte.

Dracula è un predatore sessuale: basti pensare al suo rapporto con Lucy e poi con Mina. E non è un caso nemmeno questo: che nel già citato film di Morrissey lo interpreti proprio un pornoattore. Il suo momento di maggiore forza coincide con quello della nostra maggiore arrendevolezza: la notte.

Certo. La notte è terreno di caccia, tutti i più pericolosi predatori si muovono al calare delle tenebre, ma la notte è anche il momento in cui noi, smessi i panni della nostra razionalità diurna, ci perdiamo nel vizio e nei sogni.  Di questi vizi e di questi sogni (incubi alle volte) vampire e vampiri sono i catalizzatori, e i nostri sistemi narrativi li adoperano (con maggior o minore originalità) come precisi stereotipi.
Lo aveva già compreso Murnau, quando in Nosferatu introdusse per primo questa cosa originale: ridurre in polvere il conte Orlok allo spuntare della luce del sole.

Che ficcante metafora: gli orrori e gli eccessi notturni che si trasformano in cenere all’apparire del giorno. Lasciando alla Mina che c’è in tutti noi, solo qualche vago segno (quello delle zanne nel collo), fino al prossimo tramonto.

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