Artigli

Mabel Morri | Play du jour |

Fino a qui tutto bene è un mio fumetto del 2005.
Venne pubblicato per la prima volta per quel progetto meraviglioso che fu Self Comics degli amici di lunga data Luca Vanzella e Luca Genovese, talentuosi, rispettivamente, sceneggiatore e disegnatore.
La storia racconta un piccolo momento nella vita di un’adolescente che frequenta il ginnasio, un piccolo momento che nel tempo diventa grande, o che almeno verrà ricordato nelle pieghe della memoria, dei muri della scuola, delle piastrelle del vecchio pavimento delle classi, tra le gomme masticate appiccicate sotto i banchi e le sedie e le scritte sul piano in faggio del sottobanco. Un invito innocente, una presa di coraggio che scardina qualunque timidezza, appena qualche minuto che potrebbe segnare l’inizio di una bellissima storia di quel sentimento che a sedici anni non si sa ancora come definire, perché la parola amore è troppo grande per essere pronunciata con leggerezza.
La protagonista osserva ogni giorno in classe Cecilia, una sua compagna. Le sembra perfetta. Nel mentre qualche istante della sua vita per inquadrarla: la danza classica al posto del calcio, le ballerine con la punta di gesso al posto delle preziosissime e desideratissime Adidas World Cup 6 tacchetti.
Il coraggio trovato in una scivolata sarà lo stesso usato per rincorrere Cecilia lungo le scale della scuola all’uscita, incrociarla, e chiederle se vuole un passaggio sulla canna della bicicletta. A quel punto a voi che non avete mai letto il fumetto non dirò che cosa risponde Cecilia, ma vi dirò che la seconda e terza di copertina erano un’illustrazione delle Adidas World Cup infangate dopo l’uso nel fango del campo da calcio.
Ho amato poche cose, o tante e variegate se vogliamo – dipende dai punti di vista – ma la sensazione del calzare le scarpe da calcio è una di queste. In particolar modo, le Adidas World Cup 6 tacchetti.

A Macerata si svolge un Festival di sport: l’Overtime.
È lì che ho conosciuto Davide Reviati ed è lì che, introducendo il suo Morti di sonno, la presentazione si è trasformata in un trattato calcistico, da ricordi personali di fasce piene di buche e fango alle scarpe che lui disegna, in una peraltro incantevole tavola nella quale ritrae Johan Cruijff, le Puma King. C’è stato un momento della storia in cui le Puma erano le scarpe dei fuoriclasse di sempre, quelli eterni e indimenticabili, le cui vittorie ma soprattutto le sconfitte della vita sono fuori dal tempo: da Pelè a Cruijff, da Maradona a Gascoigne.
La prima volta che le calzai non mi sentii nessuno dei quattro naturalmente ma mi bastava avere quelle ai piedi: era già bello così.

A un certo punto vengono fuori come funghi film sugli sportivi o su momenti topici: esce la qualunque, il digitale fa miracoli e da Borg McEnroe a Rush, da Race a La battaglia dei sessi è un tripudio di pellicole che raccontano la storia non più solo come rappresentazione della protagonista o del protagonista in un viatico di sofferenza prima, fama e gloria poi ed eventuale caduta dall’olimpo, ma come un intreccio di incroci di vite, di storia con la S maiuscola, di personaggi principali e secondari che a volte hanno lo stesso peso, anche quelli che nella cinematografia del passato sarebbero stati bollati come negativi.

Disegno.
Il pomeriggio è sempre dedicato alla fantasia, per cui scelgo un film o un filone (dal francese alla guerra, dall’inglese all’italiano, dallo storico al musical) e sbircio più che definirlo guardare.
A riguardarlo attentamente però, il film su cui capito quel pomeriggio, un film tv dal titolo Adidas vs Puma, secondo le logiche della cancel culture, il mondo, o almeno una buona parte di esso, non solo non dovrebbe più calzare né l’una né l’altra, ma dovrebbe bandire Hugo Boss dai propri armadi, smettere di mangiare gli Oro SAIWA e i tramezzini, e iniziare a capire che usando ancora termini come ambaradan scivolare lontano dal retaggio fascista pur proclamandosi antifascisti diventa difficile, se non complicato.

Il film inizia con il presente, un presente che la data in sovraimpressione cita come essere il 1954. Non è una data qualsiasi e il giorno è esattamente il 4 luglio, una domenica dal cielo coperto che scroscia in una pioggia battente.
Negli spogliatoi, un aitante uomo che potrebbe fare qualunque mestiere tranne che il calzolaio apre la porta decretando che sì, piove, e che si possono usare i tacchetti lunghi.
Sono tutti straordinariamente felici ed esultano come se la partita che la squadra sta per giocare l’avessero già vinta. Cosa che in effetti fu, ma non certo per le scarpe che usarono.
Nella scena successiva, incalzante nella musica eroica, il teutonico ha una tronchesi in mano, davanti a sé uno stuolo di scarpe da calcio e infiniti tacchetti che vanno tutti avvitati alla suola della calzatura sportiva.
La partita sarà, ed è, la finale della Coppa del Mondo del 1954, giocata in Svizzera in un’Europa ancora singhiozzante e ferita dalla Seconda guerra mondiale, tra la Germania Ovest e l’Ungheria dei Campioni. L’Ungheria, come altre realtà sportive che recitano e probabilmente credono nell’umirati u lepoti come la ex Jugoslavia, quel «morire nella bellezza» che appunto finisce lì e non conquista mai nulla, fa parte di quelle squadre indimenticabili cui storici e giornalisti sportivi dedicano pagine e pagine di narrazione epica ma che non si trovano mai negli almanacchi, per un motivo molto semplice: non hanno mai vinto nulla.
Ma in quel 1954 l’Ungheria di Puskas era davvero la squadra più forte mai vista su un rettangolo verde. La Germania inoltre non se la passava benissimo agli occhi dell’opinione pubblica: era appena stata divisa in due, era stata esentata dal Mondiale del 1950 come punizione per aver scatenato la guerra e l’inno che per la prima volta dal 1945 non era più stato suonato continuava a essere fischiato. Quel Mondiale per i tedeschi valeva di più di una semplice vittoria: vincere significava risorgere e finalmente lavarsi da dosso l’onta del nazismo. Capite che in ballo c’era molto di più che non con quali scarpe avrebbero poi vinto. Perché vinsero, ma le cronache raccontano anche che qualche mese dopo quasi tutti i giocatori tedeschi furono colpiti da un’epatite sospetta da uso prolungato di doping.
La FIFA – sulla quale va ricordato un orrido film con Gerard Depardieu e Tim Roth in occasione dei 100 anni della Federazione nel 2014 il cui incasso nei cinema si assestò sull’esorbitante cifra di appena 600 dollari dal titolo La grande passione – non avviò nessuna inchiesta ufficiale e la faccenda si chiuse lì.
Il mondo aveva bisogno di trovare un nuovo equilibrio dopo la guerra e l’inizio della Guerra Fredda e il calcio, come qualunque altra disciplina che fosse culturale o artistica, era la migliore propaganda possibile, la migliore vetrina che tutto tornava ad avere un ordine.

Il film poi si sviluppa nel passato, prima di ritornare a quella finale del 1954, precisamente trent’anni prima, nel 1924.
Si sviluppa sul rapporto di amore e odio tra il fratello maggiore Rudolph, buon commerciante e il più piccolo Adolf, l’aitante e visionario calzolaio che sogna di far mettere ai piedi di ogni sportivo le sue scarpe.
Nel frattempo arriva il nazismo, Hitler diventa cancelliere fino all’entrata in guerra, la Dassler diventa la società che veste gli atleti del Fuhrer fino al “colpo di testa” di Adi che veste anche Jesse Owens alle Olimpiadi del 1936, perché lui, rispetto a Rudi, non gli importa se sono ebrei, negri o altro, sono uomini e soprattutto sportivi. Cosa che poi, alla fine della guerra, secondo il film, gli vale la non esplosione dell’azienda che si era convertita alla fabbricazione di armi da parte degli americani inteneriti da una foto con Jesse Owens.
La divisione tra i due fratelli diventa ancora più abissale dopo che Rudi parte in guerra con metà dei suoi figli, mai tornati, e Adi, riformato, che tiene in piedi la baracca.
Come si suole dire, il resto è storia: Adi si tiene la Dassler chiamandola adidas e Rudi apre la sua, d’azienda, la Puma.
Ma il film non finisce di raccontare solo questo: finisce con un’intuizione di Adi, che con la vernice della porta durante un allenamento ha un’illuminazione su come rendere le sue scarpe riconoscibili all’istante. Con la vernice, prende una scarpa richiamando un calciatore e con le dita segna tre linee sul lato.
Sorvolando sulla licenza più o meno poetica di come andarono davvero le cose e dell’odio che ancora oggi i discendenti provano gli uni per gli altri, le zanne e gli artigli nazisti furono ben peggiori e un proprietario di azienda in quei tempi avrebbe fatto di tutto per mantenere quel lavoro, che fosse fabbricare scarpe o armi. Anche in Italia tantissime aziende si convertirono sotto il ventennio fascista e durante la guerra, non è una novità e non è un segreto.

Viviamo un periodo storico nel quale la fluidità ha preso il sopravvento su ciò che fino a prima della caduta del muro di Berlino era ancora un valore. Un valore piccolo, magari, uno di quelli che avevano portato l’Italia alla libertà: l’antifascismo. Non facile, sanguinoso, contraddittorio come lo sono sempre alcune cose, fu quell’antifascismo a spingere chi voleva la libertà a conquistarla con ancora più sete.
E resistere è diventato qualcosa che ha perso il significato, anche se io penso che abbia perso la lucidità del significato.
La resistenza ha diversi modi di esprimersi: uno è quello della cultura, un altro è quello della storia.
E della verità.
Una verità azzannata e chiusa in artigli prima fascisti e nazisti, oggi neofascisti, di democrature che condanniamo. Anche se ai piedi camminiamo ancora con le adidas o le Puma.

A margine: Hugo Boss fu lo stilista che creò le divise naziste.
L’acronimo SAIWA, Società Accomandita Industria Wafer Affini, fu insieme a tramezzino inventato dal patriota D’Annunzio, poeta e figura decisamente controversa negli anni di regime fascista. Ambaradan, che noi italiani, tutti noi nessuno escluso, usa da sempre, si riferisce al retaggio fascista di chi da Amba Aradam ci tornò e che descrisse come “un casino” la strage perpetrata ai danni delle truppe etiopi in fuga quando Badoglio ordinò di usare loro contro i gas tossici.

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