Lo Sguardo Oscuro

Lorenzo Ceccherini | Interni di un bassista |

Quarant’anni fa, di marzo, moriva Philip Kindred Dick. Se diamo retta ai suoi biografi non se la stava passando neppure male in quel periodo ma io non ricordo più bene se ho letto la biografia di Sutin o quella di Carrère o quella di qualcun altro. E non ho neppure troppo tempo per andare a recuperare, quindi questo non sarà un omaggio da quarantesimo anniversario ma solo uno scompattamento da memorie di mie letture dickiane degli ultimi trent’anni. Con un abbinamento musicale di cui ipotizzo soltanto la concomitanza storica della mia fruizione ma di cui sono certo della sincronia di pubblicazione. Correva l’anno 1969 e tutti e due i prodotti di cui tratterò oggi guardavano avanti di brutto, con uno sguardo decisamente cupo.

Appare una fatica immane sia tentare di fare un riassunto di dove siamo in termini di storia di questa società umana sia provare a evitarlo – c’è un tot di bieca convenienza che si esprime nel salire sulle spalle di un gigante outsider morto per prenderne in prestito lo sguardo, ma è anche vero che, visto che siamo più sensibili alle voci pienamente profetiche (e con pienamente intendo passate attraverso una ridda di ordalie che distinguano il vero oracolo dall’imbonitore) che a quelle di semplice buon senso.

Philip K. Dick | ~ gabriella giudici
Miao

Come la Pizia, Dick quella vista profetica ce l’ha consegnata un bel po’ di volte, spesso innervata negli spasmi di personaggi (e di noi lettori con loro) che si trovano a interrogarsi su cosa sia reale e cosa no, senza che la domanda abbia potuto sorgere in modo progressivo – perché se riusciamo ad abituarci a qualcosa, spesso metabolizziamo anche le incertezze più vertiginose, ma è parecchio diverso il discorso se il fulmine del dubbio colpisce in medias res. La morte della gemella Jane, un mese dopo la nascita dei due fratellini, prematuri di circa due mesi, nel 1928, probabilmente delinea quella propensione a guardare all’antinomia vita-morte con uno spirito di sfida e di colpa, e di irrimediabile immanenza. In Ubik c’è una figura femminile, Ella Runciter, che permane in uno stato labile di coscienza dopo essere morta, in una struttura chiamata moratorium dove, con artifici tecnici, si riescono a mantenere in uno stato residuale di quasi-vita i defunti. La vita di Dick, al di là di sventure e accidenti capitati, lo vide poi anche estremamente capace nel procurarsi esperienze sufficientemente lancinanti da tenere sempre aperta la fenditura da cui scaturiva la voce dell’oracolo.

La reazione tipica agli oracoli, quando non ci troviamo in una cornice di devozione, è quella di un aneddoto di cui non sono riuscito a ricavare la fonte ma che vedo riportato spesso: l’imperatore Nerone visita Delfi e consulta l’oracolo, la Pizia non gli fa riverenze e salamelecchi ma lo apostrofa in modo veemente dandogli del matricida e annunciandogli che la sua caduta sarebbe stata segnata dal numero settantatré. Nerone non la prende bene e fa bruciare viva la Pizia e uccidere gli altri sacerdoti e astanti presenti. Qualche tempo dopo, la ribellione capeggiata da Galba rovescia Nerone che fugge e finisce per suicidarsi in Egitto – Galba aveva settantatré anni. Ovviamente, perché siamo nella storia e non in una fiaba, Galba era particolarmente crudele e avaro, secondo Svetonio, e nel breve periodo del suo regno non perse occasione per qualificarsi come un vero pezzo di merda sanguinario. Non esistendo arsenali nucleari o altra robaccia simile, non fu un problema per i pretoriani toglierlo di mezzo, aprendo la strada al conflitto tra Otone e Vitellio, in quello che passò alla storia come l’anno dei quattro imperatori.

In un periodo come quello attuale, dove alcune categorie interpretative che in troppi immaginavano di poter relegare nel passato sono tornate a rivelarsi necessarie, ci sono delle sfumature quasi consolatorie, al netto degli spargimenti di sangue sottesi, nell’economia karmica di queste storie e para-storie antiche, dove il concetto di nemesi pare dispiegarsi in modo convincente. Ma poi ti rendi conto che è una riduzione romantica e che l’economia vera è quella del sangue e della violenza. Il regno di Vespasiano e quello di suo figlio Tito, che faranno seguito a quell’anno turbolento, segnano anche la conversione dell’area un tempo occupata dalla Domus Aurea neroniana in polo di intrattenimento, visto che al posto del lago artificiale fatto ricavare da Nerone sarà eretto il Colosseo, con il suo palinsesto di cacce, esecuzioni capitali (spesso ad bestias, ovverosia a colpi di fiere selvagge tenute a digiuno) e ludi gladiatorii.

Un po’ that Monday feeling

Nell’opera di Dick non è immediatamente evidente un taglio politico di una riflessione sul potere – in prima battuta sono gli individui, i singoli, spesso isolati, a essere vittime di sistemi nei quali certi giochi sembrano già essere stati decisi da forze in atto di portata ben superiore. Al più si può essere testimoni privilegiati (e allo stesso tempo vittime). Ma ci sono delle eccezioni. Anche se non sono mai i protagonisti, compaiono personaggi che si muovono al di sopra delle regole, superlativamente ricchi e potenti, in grado di influenzare scelte evolutive su scala planetaria e oltre ma sempre nel proprio bieco interesse – non c’è nessun progressismo idealista nei business leaders di un futuro dove la lotta tra corporation sconfina spessissimo in vera e propria guerra. Chissà cosa avrebbe potuto dirci un Dick ormai più che nonuagenario dei Bezos e dei Musk di oggi.

Nondimeno, lo straniamento di Ubik si incastra perfettamente in una riflessione sulla società contemporanea e sul rapporto degli individui con la realtà e con l’esercizio di un potere e di una violenza annessa che si alimenta precisamente di rappresentazioni della realtà, affogando gli attori, i delegati, gli impiegati di quella violenza, in una condizione di incomprensione terminalmente irriconciliabile di cosa stia effettivamente avvenendo. Fino al punto di non sapere neppure bene se stiano effettivamente galleggiando nella semi-vita di un moratorium. O no.

Uno dei tanti aspetti selvaggiamente e crudelmente brillanti del romanzo è che Ubik è un prodotto. La soluzione spray anti-entropica che rimette a posto l’irrimediabile, fa regredire l’obsolescenza alla faccia della seconda legge della termodinamica e della freccia del tempo, è un prodotto con il suo bravo corredo di campagne di marketing, pubblicità e testimonial.

La questione dello sgretolamento della realtà e il mistero di chi o cosa ne sia la causa è un tema centrale ed eclatante ma la mia sensazione è che vi sia una cornice più esterna e distante, ma non troppo, di un mondo post-ideologico, con un sufficientemente confuso margine tra tecnologia e mutazione culturale (se non fisiologica, in Ubik ci sono questi telèpati incredibili) che sembra una profezia perfetta, ancorché parzialmente implicita, per la nostra società contemporanea che è così post-tutto da non essere andata da nessuna parte, né ad astraad maiora, almeno in termini di benessere e salute. Ma, siamo sinceri, non è che quando il trentennio del boom post-bellico stava iniziando ad affievolirsi ci siamo messi a pensare seriamente a cosa avremmo voluto fare da grandi, ora che la situazione iniziava a farsi più seria e non potevamo più distruggerci di pugnette in cameretta, scolarci boccioni di Coca Cola e farci metri quadri di pane e Nutella, buttare via tutti i rifiuti nello stesso bidone senza chiederci dove mai finissero. No, no, si è continuato a comportarsi ancora secondo dettami da filosofia della cameretta, il tempo è passato ed eccoci qui. I mondi di Dick suonano spesso come società finite su brutte traiettorie grazie a «filosofie» di questo tipo – e il fatto che lui se ne sia andato che era ancora l’82 mette ancora di più i brividi, perché nelle sue visioni, prima della deriva mistico-allucinatoria degli ultimi anni (un modo forse di risolvere il discorso in modo creativo, ma il tema è per studiosi e biografi e io non ho manco letto le prime milletrecento pagine dell’Esegesi pubblicata), aveva colto quel combinato disposto tra parabola tecnologica, consumo come modalità di esperienza della realtà e aspirazioni etiche riviste al ribasso, se non al negativo. I suoi artefatti sono ancora più analogici che digitali, ma non vince quasi mai la rassicurazione dell’anacronismo, anzi, diventa sempre più agghiacciante la consapevolezza che gli elementi del fallimento essenziale fossero già dispiegati e innescati proprio durante quel trentennio, periodo che coincide in modo abbastanza preciso con la cronologia della bibliografia dickiana. Dopo Ubik non c’è più molto tempo, non più molti romanzi prima dell’evento 2-3-74 e di quel che vi fece seguito – materiale che sposta la riflessione dalla responsabilità umana del controllo sociale a argomenti tipo gli Atti degli Apostoli o essere ispirati dal profeta Elia o Stanislaw Lem non esiste ma è un nome fittizio che nasconde un collettivo di comunisti impegnati in attività psyops. L’ultimo è A Scanner Darkly, dove il tema del controllo sociale è al massimo della cupezza e la dimensione politica è finita ormai sullo sfondo di un panorama così totalitario che non è neppure mai necessario toccarla. In mezzo a un altro paio di opere di formato romanzo c’è Maze of Death, dove il senso di claustrofobia e oppressione è trasportato in una dimensione off world ma non per questo colpisce meno duro, con una disperata assenza di margini di manovra dei protagonisti che non appare per niente aliena o distante al lettore terrestre.

È solo un’ipotesi perché ho una memoria storica personale abbastanza scadente, ma il mio primo periodo di letture dickiane, al quale risale quella di Ubik, deve avere coinciso con quello di una serie di sperimentazioni musicali, sia in termini di ascolto che di esecuzioni. E così deve essere avvenuto da qualche parte tra il ’93 e il ’97 che mi sono trovato ad avere una discreta pila di volumi, in prevalenza edizioni Fanucci, e copie parziali o integrali di CD di un mucchio eterogeneo di gruppi di cui fino a poco prima non sapevo una beata mazza, dagli Infectious Grooves agli Helmet ai Kyuss ai Primus ai Senser ma anche i Soft Machine e, appunto, i King Crimson.

GREG LAKE: morto lo storico musicista di ELP e King Crimson –  GRINDONTHEROAD.COM
A volte il bassista non puoi proprio ignorarlo – ma puoi sempre spingerlo all’abbandono

La prima volta che ho sentito 21st Century Schizoid Man è stato a casa del batterista dell’epoca – un vinile fatto girare su un impianto audio niente male, il che contribuì ad accrescere la sensazione di stare venendo investito da qualcosa di assolutamente massiccio e arroventato ma pensato fino all’ultimo dettaglio da menti superiori e eseguito da musici spietati e implacabili. Solo in seguito avrei avuto qualche nozione del significato delle parole «Robert Fripp» e di certe sfumature del personaggio, fondamentali per il risultato delle produzioni di quell’ensemble, ma anche per lo spirito poco incline al compromesso con cui le cose sono state fatte (più volte con epurazioni promosse dallo stesso Fripp), a questo punto per più di un cinquantennio. Insomma, il pezzo, mentre sono lì con in mano la copertinona del trentatré giri, ancora non so del pugno di ferro di Fripp, o di come il grido dell’uomo dipinto in copertina sia stata l’unica cover art fatta dal suo autore, Barry Godber, che non fece in tempo a farne altre perché morì nel 1970 per un attacco di cuore, a ventiquattro anni, il pezzo mi investe con la quantità di moto di un treno merci lungo tre chilometri lanciato a centosessanta all’ora. Canta Greg Lake, il bassista (!), il testo è di Peter Sinfield – entrambi, di lì a poco, non saranno più parte dei King Crimson, Lake decide ben presto di puntare sul sodalizio con Emerson e Sinfield viene silurato da Fripp nel ’72. Fripp il vizio di fare e disfare non lo perderà mai, come dimostra l’esclusione di Adrian Belew messa in atto nel 2013. C’è un film uscito da poco che penso possa raccontare in modo opportuno molte storie di cui ho una cognizione moooolto imprecisa – cosa che invece non si può dire della chiarezza della botta che ricevetti in quell’occasione.

Non fu un’illuminazione sulla via di Damasco, ché se lo fosse stata sarei passato per il conservatorio o comunque per studi adeguati a obiettivi musicali di quel livello – però l’impressione fu forte, e ancora oggi la memoria di quella sensazione è viva. Non ero indifferente neppure a quel che potevo intendere del testo, il titolo mi piacque da subito (nonostante una esperienza di vita da appena ventenne – ma studiavo storia contemporanea) e certe parole e frasi risuonavano con una posizione e una visione della società non troppo diverse da quella che ho oggi, che ne so: «paranoia’s poison door» o «innocents raped with napalm fire». Che poi cadono benissimo anche per accompagnare gli eventi di cronaca bellica internazionale di queste settimane.

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Oggi il duetto è composto da:

Philip K. Dick, Ubik, Fanucci, 1995, 246 p.

9788834706107: Ubik - AbeBooks - Dick, Philip K.: 8834706102

King Crimson, 21st Century Schizoid Man, da In the Court of the Crimson King, Island/Atlantic, 1969

Bonus (io mi sono guardato solo i primi sette minuti – o guardavo quello o scrivevo qui. Ok, ho capito che per voi era meglio la prima, ma le cose non vanno mai come si vorrebbe):

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