Il fazzoletto tricolore e partigiano intorno al collo, sempre

Mabel Morri | Play du jour |

Lo dice bene Federico Buffa nello speciale per il Giorno della Memoria dedicato ad Arpad Weisz tratto dal libro Dallo scudetto ad Auschwitz di Matteo Marani andato in onda tempo fa su Sky.
Lo dice con quel suo tono suadente, quasi scocciato di dover sottolineare una banalità simile.
«Inutile nascondersi dietro a un dito» dice.
Poi aggiunge: «È la storia del nostro paese, in particolare di quella frazione del nostro novecento».
Lo dice da giornalista privo di qualunque inflessione di parte, forse dispiaciuto che tanta bellezza sia dispersa perché, a un certo punto, il mondo è impazzito, ottenendo però l’effetto di una giustificazione.
Ma quando si parla di persone, sportivi, atleti, le cui vite hanno incrociato il Ventennio, non è detto che all’epoca fossero dalla parte giusta. Che poi è quella che, arrotondando a un periodo che dura da 80 anni, mi permette di essere me stessa senza che venga messa in un campo di concentramento o in una prigione per le mie idee personali e politiche. Lo permette a tutti. Permette a tutti di avere una libertà che si inizia a dare per scontata in un appiattimento generale da “pensiero unico”, pericolosissimo.
Un altro che lo dice bene, Hegel, in Fenomenologia dello spirito: «La notte in cui le vacche sono nere le differenze non si distinguono più».
Ho timore che stia accadendo oggi.

Il 10 maggio 1936 un intrepido Bologna, passato dalla cura dell’allenatore ebreo ungherese Arpad Weisz (che insieme alla famiglia sarà sterminato ad Auschwitz) e dalla visionarietà del Presidente Renato Dall’Ara, vince il terzo scudetto della sua storia mentre il re Vittorio Emanuele III diventa Imperatore d’Etiopia. Anche il campionato successivo, quello del ‘36-’37, vede i rossoblù Campioni d’Italia rinforzati da qualche acquisto che va ad aggiungersi a una rosa già competitiva.
Uno di questi è Dino Fiorini: viene chiamato Conte Spazzola, ara la fascia, è un esterno avanti di almeno cinquant’anni su tutti i calciatori dell’epoca, è bellissimo e tracotante, arriva al campo con la Lancia invece che col tram come fanno gli altri giocatori. E quando la Repubblica di Salò chiede la sua adesione non si tira indietro, diventa un milite della Guardia Nazionale Repubblicana.
Ha 29 anni quando, tessera fascista nel taschino, lo raggiungono due pallottole partigiane alla schiena durante uno scontro.
Inutile nascondersi dietro a un dito: potevi anche essere l’ala del Bologna più forte della tua generazione ma se il periodo nel quale volavi su quella fascia era anche quello del Ventennio al quale promettevi fedeltà e braccio teso, nella memoria sei e rimani un fascista.

La foto è famosissima.
È stata scattata nel 1931.
Una fila di giocatori nell’immagine del tempo in bianco e nero, chi con la giacca chi con la divisa da gioco, alzano il braccio per il saluto romano com’era d’uso in queste occasioni, quando in tribuna sedevano autorità del regime. Uno di loro però non lo fa. Ostinatamente, le braccia rimangono abbassate lungo i fianchi.
Quel giorno del 1931 si inaugura quello che oggi è l’Artemio Franchi di Firenze, che nel Ventennio fascista fu un progetto voluto fortemente da Mussolini e progettato da Pier Luigi Nervi che lo disegnò a forma di D dedicandolo a Giovanni Berta, uno squadrista fiorentino.
Quel 13 settembre la Fiorentina ospita la squadra austriaca Admira Vienna e il gesto non passa inosservato.
Il giocatore si chiama Bruno Neri, è un centrocampista ordinato con buone doti tecniche e agonistiche.
Dopo l’armistizio del settembre 1943, il calciatore Neri col nome di battaglia “Berni” diventa il Vicecomandante del Battaglione Ravenna aderendo alla Resistenza.
Il 10 luglio del 1944, mentre perlustra il percorso che il suo battaglione deve percorrere per il recupero di un aviolancio alleato sul monte Lavane insieme al comandante Vittorio “Nico” Bellenghi, cadono entrambi sotto il fuoco fascista.

Piero Chiesi vince la Milano-Sanremo nel 1927.
Non è il ciclismo di oggi, non lo sono le biciclette e non lo sono i percorsi, di fango e di polvere, sterrati asimmetrici aridi col sole e scivolosi con la pioggia.
Soprannominato Pelo, in quell’edizione Chiesi scattò a 200 chilometri dall’arrivo sorprendendo i più quotati Alfredo Binda e Domenico Piemontesi.
Rimarrà l’unica vittoria in carriera, carriera conclusasi prima del tempo a causa della squalifica per traino in una tappa del Giro d’Italia del 1931.
Non aiutò poi il suo carattere spregiudicato e temerario. Siamo sempre dalle parti del non nascondersi dietro a un dito: quando si arruolò nelle Brigate Nere dopo la sua adesione alla Repubblica Sociale Italiana venne catturato e processato una prima volta nel 1944, lasciato libero da un partigiano che lo riconobbe come ciclista.
«Ma sapete chi è quell’uomo?» disse «È Chiesi! Ha vinto la Milano-Sanremo scattando a 200 chilometri dall’arrivo e facendo una fuga in solitaria!»
È presumibile che ci sia stato un dialogo simile, è presumibile che gli strinse anche la mano.
Qualche giorno dopo Chiesi viene catturato nuovamente e in quella seconda volta non ci fu nessun ammiratore a evitargli la fucilazione.

Il ciclismo non è uno sport di squadra: non dà ai giovani l’inquadramento di ruolo che invece impone il calcio e che abitua a un comportamento militare. E poi si svolge in strada, non in uno stadio o su un campo dove lo spazio è più addomesticabile. Il pubblico si accalca lungo le vie di una gara in bicicletta, non può essere manovrato e organizzato come dentro gli stadi.
Inoltre la bicicletta viene accettata dai fascisti anche per un motivo importante per il loro pensiero: contraddice la volontà di modernizzazione e di efficientismo rappresentata dai motori. Le persone non devono avere curiosità e pretese perché se formassero un loro pensiero potrebbero capire che il fascismo non li vuole intelligenti, li vuole nel sistema e ai propri ordini.
Però, come ogni regime, anche il fascismo è attento a ciò che ispira la massa per poterlo modificare e renderlo propagandistico: così nel 1934 vengono istituite le “Centurie”, giovani fascisti che cavalcano la bicicletta e cercano di replicare le imprese di quelli bravi per davvero.
Mussolini decide di inserire premi in denaro all’arrivo di ogni tappa e fa adornare la troppo femminile maglia rosa con un grande fascio, i meccanici dal canto loro si adeguano e nascono il cambio DUX e i freni Balilla.
Non a caso lo sport in generale in ogni dittatura ha un suo ruolo ben definito.
Lo fece Hitler che volle le “sue” Olimpiadi del 1936 per mostrare la magnificenza della sua Germania nazionalsocialista.
Lo fece Mussolini con i due Mondiali, il primo soprattutto, quello del 1934 giocato in casa e che vide il trionfo degli azzurri.
Lo fece il generale Videla con il suo Mondiale in Argentina nel 1978, quando la FIFA si voltò letteralmente dall’altra parte.
Lo ha fatto Putin con le Olimpiadi invernali di Sochi nel 2014 e con il Mondiale di calcio nel 2018, il primo dei due successivi mancati clamorosamente dall’Italia.
Lo faranno gli arabi nel novembre 2022, con il Mondiale in Qatar, per citare i casi mediatici più famosi.

Quando lo interpreta Pierfrancesco Savino nell’omonimo film tv, Gino Bartali se n’è andato da appena sei anni.
Non lo disse mai a nessuno, quello che fece durante la guerra, non disse mai a nessuno che si faceva ogni giorno centinaia di chilometri per andare e tornare in bicicletta, con la scusa di essere uno sportivo che si manteneva in allenamento, e che invece pedalava per collaborare con l’organizzazione clandestina DELASEM, Delegazione per l’assistenza degli Emigranti Ebrei, e consegnare documenti falsi per metterli in salvo dai campi di sterminio che teneva nascosti nei tubolari della bicicletta.
E non disse mai che durante gli ultimi ferocissimi mesi dell’occupazione nazista ospitò in una cantina di sua proprietà i Goldenberg, una famiglia di ebrei istriani.
Gino Bartali riceve il riconoscimento di Giusto tra le Nazioni oltre che la Medaglia d’oro al Merito Civile per gli 800 ebrei salvati con le sue corse “di allenamento”.
Del campione toscano si è scritto, disegnato (l’ultimo fumetto di Lorena Canottiere in collaborazione con Julian Voloj è su di lui ed edito da Coconino Press), visto, persino narrato in monologo a teatro, tanto, tantissimo: è un personaggio che sta assumendo tratti epici e poi c’era quell’altro, l’amico-nemico Fausto Coppi.
Ma c’era anche “il terzo uomo”, quello che vinceva quando non ce la facevano Bartali e Coppi, Fiorenzo Magni e con lui quell’accusa mai sopita: era stato lui, in camicia nera, a sparare a Lanciotto Ballerini, un eroe della Resistenza, nello scontro a Valibona dove i fascisti uccisero tre partigiani? Magni fu assolto dall’accusa di omicidio, testimoni di notevole caratura – tra i quali Alfredo Martini, collega ciclista e grande CT della Nazionale di ciclismo oltre che partigiano lui stesso – dissero che, al contrario, Magni lavorasse di nascosto contro i nazifascisti. La verità non la sapremo mai.

Infine ci sono tutti coloro che non avranno mai dedicata loro una fiction in prima serata su Raiuno: Vito Ortelli, Campione Italiano su strada nel 1948; Luciano Pezzi; Alfredo Pasotti che, arrestato dalle SS e condannato a morte, scapperà rocambolescamente con l’aiuto di un cugino… su una bicicletta; Enzo Sacchi, vincitore della velocità dell’Olimpiade a Helsinki; Augusto Zanzi; Giuseppe Macchi; Toni Bevilacqua; Renato Perona che con la sua pesante bicicletta portava le armi ai partigiani; Luigi Ganna, vincitore del primo Giro d’Italia nel 1909, divenuto costruttore di biciclette nel 1944 ne regalò 10 alla Brigata Garibaldi che operava nel varesotto; Renato Morandi, nome di battaglia “Carletto”, internato in un campo in Svizzera, al rientro in Italia nel giugno 1944, dà vita al primo nucleo della 52 Brigata Garibaldi che si scontra duramente con la Brigata Nera Cesare Rodini.

È stancante vero? Un elenco di gente di cui non si conosce il volto, di cui ci si stanca alla terza riga di leggere il nome, la cui morte nella peggiore delle volte è capitata tra il 1943 e il 1944.
Capita così quando si va nei luoghi della memoria, quando si osservano le croci abbracciate dalle corone tricolori, quando lapidi grandissime hanno questi lunghissimi elenchi di nomi. 
Ultimamente l’ANPI, l’associazione dei partigiani, è sotto accusa, per le dichiarazioni, per le prese di posizione nette e che danno fastidio a qualcuno, persino per il manifesto che di solito passa talmente sotto traccia da non sapere nemmeno che è stato divulgato. Che però ha il merito di recuperare il verbo “ripudiare”.
Faccio mie, parafrasando, le righe del giornalista Maso Notarianni: ripudiare per la Treccani significa “non riconoscere più come proprio qualcosa che pur è nostro”; i partigiani e chi aveva scritto la Costituzione non riconoscono più come proprio uno strumento che avevano usato, pur se anche grazie a quello avevano vinto. Perché chi aveva fatto la Resistenza sapeva che la guerra fa schifo, sempre e comunque, e in tutte le guerre pagano i civili e gli innocenti.
È inutile nascondersi dietro a un dito.
A quei nomi che vengono ricordati magari solo il 25 aprile, che fossero sportivi o meno, è a loro che dobbiamo un mondo di pace che dura da settantasette anni, almeno in questa parte di mondo.
E riconoscere le vacche nere dalle altre è ancora più urgente, in quella parte giusta di mondo, con o senza fazzoletto tricolore al collo.

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