Tutta la rabbia nei pugni: La vita scatenata di Jake La Motta

Boris Battaglia | Vite ammaccate |

«All I can remember ever since I was a little kid was fighting and yelling and working and stealing and more fighting.»

Jake La Motta, Raging Bull: My Story, Englewood Cliffs Press, 1970.

Essere poveri fa schifo.
In America poi fa più schifo che in qualsiasi altro posto.
Uno schifo che lo senti negli odori che hanno i palazzi popolari del Bronx, pieni di immigrati italiani. Negli anni Trenta del secolo scorso.

Essere poveri fa schifo.
Ma la cosa peggiore è che allo schifo ci si abitua. Come ti abitui all’odore nauseante del tuo condominio pieno di immigrati italiani come te. Ogni condominio però ha un odore diverso. Dipenderà forse da come cucinano il cavolo. È che tu ti abitui al tuo, quello dove vivi; ma, quando entri in un altro, quel nuovo odore, schifoso come il tuo ma a cui non sei abituato, ti sbatte in faccia (sotto al naso) lo schifo della tua condizione di povero, di italiano, di immigrato.
Quell’odore di cavolo e sudiciume è una cosa che è impossibile descrivergliela, a chi non ci è mai vissuto là nell’East Side: tra Arthur Avenue e Mulbery Street.
Jake lo sa bene. Ci è nato nel Bronx (il 10 luglio 1921) e ci è cresciuto. Proprio in Mulbery Strret.
È per le strade attorno a quel condominio che ha presto imparato che se volevi sopravviverci, nel Bronx, dovevi essere un duro. In realtà Jake si chiama Giacobbe, sua madre è di origini italiane ma è nata in America, suo padre invece è un immigrato arrivato da Messina. Non parla una parola d’inglese. Per questo lui si chiama Giacobbe. Che però, sarà pure il nome del nonno messinese, ma non è un nome da duro, lì nel Bronx è un nome ridicolo. Quello è un posto che se hai un nome ridicolo sei finito, per questo Giacobbe si fa chiamare Jake.

Tutti i giorni, per andare a scuola, sua madre gli prepara un panino per il pranzo. Tutti i giorni un gruppetto di ragazzi più grandi e più duri di lui glielo ruba. Fino al giorno che decide che ne ha abbastanza e si oppone al sopruso. Viene pestato pesantemente. Allora fugge. Tornato a casa lacero e sanguinante gli tocca pure sorbirsi la sfuriata di sua madre per come ha conciato i vestiti. Che cosa crede, che grattano i soldi dal muro? Non sono ricchi, mica possono permettersi vestiti nuovi! Adesso le tocca pure rammendarli, che ci avrebbe una voglia domani di mandarcelo a scuola conciato così, visto che lui non ha rispetto per la sua fatica…
Ma il peggio è quando arriva a casa suo padre. Appena sa cosa è successo gli rifila due schiaffi e gli grida, in messinese: «Non provarci mai più, piccolo figlio di puttana! A scappare davanti a qualcuno! Non ti ho mai insegnato questo! Un La Motta non scappa. Un La Motta colpisce sempre per primo, e colpisce forte! Torna un’altra volta a casa che piangi e sanguini e ti pesto io che quelle di quei bastardi ti sembreranno carezze!»
Queste parole, oggi, Jake le ricorda come la cosa migliore che ricevette da suo padre. Gli sono rimaste scolpite in testa da allora. E non puoi sapere quanto gli sono servite.

Qualche giorno dopo si ritrovò davanti i bulli della scuola. Per fuggire gli sarebbe servito un coraggio che non aveva, perché poi avrebbe dovuto affrontare la furia di suo padre. Aveva solo i suoi pugni. E li usò, con tutta la rabbia che c’era dentro. Non sapeva minimamente come si combatte, così decise di colpire più forte e più velocemente che poteva. In fondo l’unica cosa da fare quando devi combattere è combattere.
Vinse. E in poco tempo si sparse la voce nel quartiere che Jake era un vero duro che picchiava forte.
Ancora non lo sapeva, che aveva solo otto anni, ma era cominciata la sua carriera di pugile.

Quando suo padre lo viene a sapere ha un’idea geniale. Se suo figlio se la cava così bene con i pugni perché non sfruttare la cosa? Negli stessi posti dove si organizzano combattimenti clandestini tra cani o tra pugili cui non ha arriso il successo del professionismo, si fanno anche combattimenti tra bambini. Piacciono un sacco, che sono divertenti, e ci scommettono forte. Vengono anche i signori, dai quartieri ricchi per divertirsi a vedere questi incontri tra bambini e scommettere. Jake è bravo. Diventa presto il piccolo campione di questi incontri e suo padre ci tira su i soldi per pagare l’affitto.

Però a Jake non è che piace questa cosa, che vede girare i soldi delle scommesse degli adulti, tutta roba che in fondo vince lui, e non gli tocca niente. Non gli sembra giusto. Va bene che suo padre ci paga l’affitto, ma qualcosa spetterà pure a lui, no?, ecchecazzo!
Che se i soldi non te li danno, quando per di più ti spettano, allora te li vai a prendere. Dove ci stanno. Nei negozi, nelle tasche della gente. La strada per diventare un delinquente di mezza tacca, come ne è pieno il quartiere, è lì davanti a lui e Jake sta cominciando a percorrerla. Solo che è una strada che si interrompe presto e spesso. E quando ti va di lusso l’interruzione non si chiama obitorio ma riformatorio.

Nel 1935 Jake finisce a Coxsackie. Il riformatorio dello stato di New York che porta il nome della città dove è stato costruito. È praticamente nuovo. Un gioiellino di modernità concentrazionaria.
Là nell’East Side Jake aveva un amico, di quelli veri, che c’è gente che in una vita non ne ha nemmeno uno di amico così. Si erano conosciuti sui ring clandestini dove li portavano a combattere, ancora bambini, i loro genitori. Si chiamava Rocco Barbella, aveva due anni più di lui e menava durissimo. Lo chiamavano The Rock per questo. In fondo se non sapevi menare non ci duravi in Mulbery Street dove vivevano.
Uscivano insieme per strada e cercavano di rubare quello che trovavano. Non avevano niente, e non gli sembrava sbagliato prendersi quello che non avevano. Però il giudice che sbatté Rocco al riformatorio di Albuquerque quando aveva solo undici anni probabilmente la pensava in modo diverso. Da allora Jake lo aveva perso di vista. Cinque anni dopo lo rincontra lì, a Coxsackie. Cinque anni in cui Rocco aveva fatto fuori e dentro dai riformatori. Rincontrarsi, anche in posto come quello, è pura felicità, una vera festa. Ma soprattutto sarà una di quelle cose che ti indirizzano la vita verso una nuova strada.

La strada della palestra.
Neanche fosse sempre lo stesso maledetto B movie in tutte queste storie di uomini e pugni c’è spesso il carcere. Nel carcere una palestra. A gestire la palestra un prete. A Coxasakie c’è Padre Joseph, che sa riconoscere il talento, e li vuole entrambi ad allenarsi, Jake e Rock, tutti i giorni sul ring della sua palestra. Non ha dubbi sulla stoffa di cui sono fatti.
Mesi di duro allenamento. Una serie di incontri organizzati tra vari riformatori dello stato di New York dalla Catholic Youth Organization. Jake mostra tutto il suo talento. Quando finalmente viene rimesso in libertà, Padre Joseph gli dice: «Non posso seguirti giù nel Bronx per controllarti, ma sono sereno. So che non tornerai a sbronzarti tutte le sere e a rapinare gioiellerie. Sono certo che combinerai qualcosa di buono».
«Certo Padre» risponde Jake «sono un combattente ora».

Con Rocco resterà sempre molto legato. Resteranno molto amici e diventeranno famosi entrambi. Rocco si cambierà il nome in Rocky Graziano e diventerà come Jake un campione. Ma non si incontreranno mai sul ring.  Nemmeno il 14 giugno 1950, quando tutto era già fissato. Nessuno sa per quale motivo rinunciarono a quell’incontro. Pazienza.
Come dilettante Jake vince tutto. Si sente molto gratificato. Nel quartiere lo riconoscono tutti, per strada, al supermercato. Dovunque vada c’è qualcuno che gli dice «Ehi, La Motta, ti ho visto ieri sera, splendido incontro, bella vittoria». Certo, la vittoria. Sì, ma neanche un soldo.
Sempre la stessa storia che lo perseguita, sempre lo stesso problema: i soldi. Una sola alternativa, per evitare di tornare a procurarseli come prima del Coxasakie, il professionismo.

Nel 1941, a diciannove anni, Jake La Motta entra nel professionismo. Ha uno stile di combattimento molto aggressivo, quello imparato nelle strade del Bronx, cerca di avanzare, sempre e comunque, per ridurre al minimo la distanza tra lui e l’avversario. Poi scarica le sue serie rabbiose di pugni. Un bulldozer di 72 kili che riesce a portare tutto il suo peso nei pugni, In entrambi.
Da marzo a settembre del 1941 infila una serie di indiscutibili vittorie. Il ragazzo si monta un po’ la testa. Ci pensa Jimmy Reeves (ex campione dei pesi medi) a fermarlo.
Mentre Reeves lo colpisce, lo colpisce e lo colpisce Jake ha una rivelazione. Sa che per quanto Reeves lo colpirà non riuscirà a buttarlo giù. Anche se lo massacra, lui resterà sempre dritto sulle sue gambe. Il suo corpo può incassare di tutto. Può anche avere il naso rotto, l’arcata sopraciliare sanguinante, le mani fracassate. Ma non ci va al tappeto. Consapevole di questo parte al contrattacco. E si aggiudica un buon numero di round. Ma il verdetto non unanime attribuisce la vittoria a Reeves.
Con Reeves la partita si chiuderà dopo altri due incontri, uno subito il mese dopo che finirà con entrambi i pugili ancora in piedi e un discutibilissimo verdetto in sfavore di La Motta, e il terzo a Detroit, il 19 marzo 1943, che Jake siglerà con un incredibile sinistro che manderà Reeves faccia in giù alla sesta ripresa.
Quello che adesso conta però è quello che Jake adesso sa: anche se ha ancora tanto da imparare in fatto di tecnica, arriverà comunque in cima. Nessuno potrà fermarlo. Nemmeno la guerra.

Disegno di Lucia Lamacchia

L’8 dicembre 1941, dopo l’attacco di Pearl Harbour, gli Stati Uniti dichiarano guerra al Giappone e pochi giorni dopo alla Germania e all’Italia. Jake non viene arruolato a causa di una recente mastoidectomia che l’ha lasciato mezzo sordo. A morire nel Pacifico o nelle Ardenne lo Zio Sam i suoi ragazzi ce li manda tutti interi.
Così a un anno circa di distanza, dopo un’altra bella serie di vittorie, Jake incontra per la prima volta quello che al momento è il più grande di tutti: Sugar Ray Robinson.
Quella del 2 ottobre 1942 al Madison Square Garden di New York sarà la prima di sei leggendarie volte. Il Madison scoppia per la gente che è venuta ad assistere all’incontro.
In questo giorno La Motta prende la sua seconda lezione, dopo quella impartitagli da Reeves.
Scagliatosi subito, all’inizio del primo round, con irresponsabile sicurezza contro l’avversario lo colpisce al volto. Robinson barcolla, ma l’esaltazione di Jake dura un attimo. Robinson si riprende in un lampo e prende il controllo del match. La Motta incassa da par suo, ma perde sette round su dieci. Un necessario bagno d’umiltà.
Per avere la rivincita Jake dovrà pazientare otto mesi e portarsi a casa quattro vittorie in altrettanti incontri. Finalmente il 2 maggio 1943 sale gli scalini del ring dell’Olympia Stadium di Detroit, davanti a quasi tredicimila spettatori, pronto a far vedere a Robinson cosa ha imparato in questi otto mesi. Indossa il suo accappatoio di seta con la pantera sulle spalle. Si sente feroce come quella pantera. Freme di rabbia.
Robinson invece è sereno, tranquillo. A differenza di quelli di Jake nei suoi pugni non c’è alcuna rabbia. Lo chiamano Zucchero proprio per la gentilezza dei suoi colpi. Che fanno male lo stesso, però.
Al suono della campana Jake si scaglia contro Sugar Ray, come un toro ferito. Cerca subito di penetrargli la guardia. Con una furia scatenata non lascia respiro a Robinson al quale servono tutto il suo talento e tutta la sua esperienza per contenerlo. Robinson non riesce ad attaccare; non fa che difendersi. Alla ottava ripresa Jake trova finalmente lo spiraglio che ha cercato senza sosta nella guardia di Robinson. La penetra con un destro al fegato seguito da un gancio sinistro al mento. Robinson barcolla, si appoggia alle corde e scivola al tappetto. Si rialza. Ma l’incontro è ormai segnato. La vittoria è di Jake. Per la prima volta dopo quaranta incontri Robinson è stato sconfitto.
La Motta ha buttato giù quello che al momento è il campione più grande di tutti. Non succederà più. Gli altri incontri contro Robinson li perderà tutti. Il terzo, il quarto, il quinto e, più indimenticabile di tutti, il sesto.

Il terzo incontro, quello del febbraio 1943 in realtà Jake è convinto di non averlo perso. È che ha deciso di perderlo. Robinson il giorno dopo partiva sotto le armi. Jake aveva deciso di non colpirlo con tutta la potenza della sua rabbia. Certo che Robinson avrebbe fatto lo stesso. Sono cose che i pugili, quelli grandi, sentono e sanno senza bisogno di parlarsi.
Magari questa è solo una fantasia di Jake, vai a saperlo! Quello che è certo è che adesso è pronto per pretendere il titolo. Però c’è un problema. Il titolo NBA dei medi lo detiene Tony Zale, il Figlio della Nazione, l’Uomo d’Acciaio. Non si può correre il rischio che lo perda contro uno straccione d’immigrato, per lo più italiano. Gli italiani sono i nemici, laggiù in Europa. Quindi l’incontro non si organizza.
Finché la guerra finisce. Solo che finita la guerra è un altro l’italiano che porta via il titolo a Zale: Rocky Graziano. Poi, l’anno dopo, Zale se lo riprende. E lo perde nel settembre del 1948 contro Marcel Cerdan. Adesso che il titolo ce l’ha un francese, tocca a Jake riprenderlo.

Notte tra il 15 e il 16 giugno 1949. Piove a dirotto a Detroit. L’incontro è stato rimandato proprio a causa di questa pioggia torrenziale. Nella suite dove Jake alloggia nella logorante attesa dell’incontro, si sta scatenando l’inferno. Per arrivare a pretendere il titolo ha dovuto fare un favore a Frankie Carbo, una di quelle cose che Jake non sa fare: andare giù in un incontro contro un pugile mediocre come Billy Fox. Questione di quote e di scommesse e la convinzione, errata, di Carbo che Fox fosse un pugile da portare al titolo. Solo che Jake è proprio imbranato, è andato giù così male, così evidentemente per finta, alla quarta ripresa che tutti se ne sono accorti che era una combine, e adesso è indagato dall’FBI. Per questo è incazzato. Ma è ancora più furioso perché ha scoperto che la sua bellissima seconda moglie Vickie se l’è fatta con suo fratello e adesso se la fa con Carbo. Ha distrutto tutto nella suite e ora sta per rivolgere la sua furia su Vickie, ma Joey, suo fratello gli sbarra la strada brandendo un coltello. Se Jake fa ancora un passo non esiterà a piantarglielo nel petto. Jake non vuole colpire il fratello, anche se non lo perdonerà mai. Terrà la rabbia che ha nei pugni tutta per Cerdan.
Ha pure smesso di piovere. Tra qualche ora combatteranno.

Il tappeto del ring è talmente zuppo che ci vuole niente a volare. Al primo round Cerdan, sotto l’attacco forsennato di La Motta, scivola e si lussa la spalla sinistra. Il sinistro è il suo pugno migliore. Comunque Cerdan tiene testa a Jake dominando fino al quarto round. Poi lentamente comincia a cedere. È sfinito. Mentre nulla sembra scalfire la furia di Jake. Il volto tumefatto, la spalla forse rotta Cerdan non può resistere di più e dal suo angolo, al suono della decima ripresa, gettano la spugna.
Jake La Motta è campione del mondo dei pesi medi. Nemmeno lui sa dire bene come si sente: come se Dio in persona gli avesse messo il mondo tra le mani.

Ma insieme alla gloria arriva il periodo più nero della sua vita. Il divorzio con Vickie che, avvolta nella sua pelliccia di ermellino, se ne è andata il giorno stesso della sua incoronazione a campione. La droga e l’alcool. Il terzo matrimonio e la gelosia folle che lo devasta. Massacra di botte il suo migliore amico perché sospetta sia andato a letto con sua moglie. Non riesce a scrollarsi di dosso il luogo da cui viene. Quel cazzo di stramaledetto Bronx è il suo destino. La causa della sua rabbia. Il motivo delle sue vittorie.
Nel momento esatto in cui ha raggiunto il punto più alto della sua vita, il titolo di campione del mondo, Jake è già sulla strada per raggiungere il suo punto più basso. Se nonostante l’alcool e la droga mantiene il titolo per ben due volte nel 1950, contro Tiberio Mitri e poi Laurent Dauthuille. dovrà consegnarlo nelle mani di Sugar Ray Robinson l’anno dopo.

I due pugili che salgono sul ring del Chicago Stadium il 14 febbraio 1951 si conoscono come nessun altro. È la sesta volta che si incontrano. Conoscersi così bene servirà molto di più alla tecnica di Robinson che alla furia di Jake. Per tutto l’incontro Robinson con movimenti precisi e oculati tiene La Motta a distanza, sapendo bene che diventa pericoloso solo quando ti penetra la guardia e ti piazza il suo gancio sinistro. Jake per tutto l’incontro si sfianca nel tentativo di accorciare la distanza. Inutilmente. Gli spostamenti di Robinson impediscono a Jake di tenersi in asse con lui e di raggiungerlo con i suoi colpi. Per raggiungere l’avversario che continuava a spostarsi alla sua destra, Jake avrebbe dovuto tagliargli la strada spostando il piede che teneva arretrato, il destro, prima di quello che teneva in avanti, il sinistro. Così si sarebbe ritrovato in asse con Robinson e a distanza ravvicinata tanto da colpirlo. Ma La Motta non ha la raffinatezza tecnica per eseguire un movimento così apparentemente semplice. Lo sa e la rabbia monta per questo. Ma questa volta la rabbia non lo porta a niente, se non a esporsi sempre più ai colpi di Robinson, il quale, dal 10 round aumenta la violenza e la frequenza dei colpi, cercando di chiudere l’incontro con un KO.
Ma Jake non ci va giù. Piuttosto si fa ammazzare. Alla tredicesima ripresa Robinson lo chiude alle corde e lo tempesta di colpi. Jake resta lì, appeso ciondoloni alla corda più alta a prendere pugni su pugni ma, come sorretto da una forza invisibile, non scivola al tappeto. Finché l’arbitro interrompe l’incontro decretando la vittoria di Sugar Ray.
Riportato al suo angolo Jake si alza e raggiunto l’avversario gli biascica con dispetto: «Non mi ci hai mica buttato giù».

Ma, per dirla tutta, questa sembra proprio sia una leggenda.

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