E se il Sandman televisivo fosse decisamente meglio del fumetto?

Francesco Pelosi | Affatto |

Dire che Neil Gaiman è un buono sceneggiatore di fumetti mi è sempre parso fuori luogo o quantomeno fuorviante. Certo, la sua carriera e la sua fama di scrittore si sono generate dall’aver ideato e sceneggiato The Sandman, serie a fumetti di grande successo che ha largamente influenzato l’immaginario degli anni Novanta, ma la sua scrittura mi ha sempre dato l’impressione di sgomitare fra le vignette e di rischiare di far precipitare in fondo alla pagina tutti quei balloon zeppi di parole.
C’è un abisso fra lo scrivere narrativa e scrivere fumetti, e l’aspetto più evidente di questo scarto riguarda la modalità grafica: chi scrive narrativa usa solo i segni grafici delle parole, chi fa fumetti usa anche tutto il resto della gamma possibile di quei segni.
Chi, come Gaiman, sceneggia soltanto e non disegna ciò che scrive, compie un ulteriore passo in là nell’abisso: deve necessariamente affidare a qualcun altro – il disegnatore – la rappresentazione di ciò che racconta. Un divario gigantesco rispetto allo scrittore che immagina e scrive tutto all’interno della sua intimità, ma anche dell’autore di fumetti “unico” che immagina, scrive e poi traduce in disegni senza mai uscire da se stesso per farlo (alle volte poi questo triplice processo è già insito nel gesto del disegno, con un’unità di intenti ancora maggiore).
Chiunque abbia letto Sandman, si sarà reso conto che la scrittura di Gaiman, oltre a essere estremamente verbosa (chissà se un tic dell’epoca – anche Alan Moore aveva lo stesso problema – o dell’autore), non sempre procede in comunione con il lavoro dei disegnatori, ma sembra piuttosto che questi si debbano fare in quattro per seguire le necessità dello sceneggiatore. Nulla di male, ci sono molti fumetti che funzionano così, ma la dissonanza sulla pagina è tangibile e spesso la lettura è decisamente faticosa.

Queste le mie considerazioni generali riguardo a Sandman da quando lo lessi per la prima volta fino a qualche giorno fa, quando ho cominciato a guardare la serie tv di Netflix (che ha Gaiman stesso alla sceneggiatura). Puntata dopo puntata, vedendo come tutto scorre bene e come, pur con alcune piccole differenze e semplificazioni, la storia sia rimasta la stessa, con gli stessi punti di forza, le stesse tematiche e le stesse emozioni in campo, sono arrivato allora a chiedermi: e se questa versione di Sandman fosse finalmente la sua migliore declinazione? La sua forma definitiva? Qualcosa che, oltre ad aver centrato il bersaglio, può anche arrivare a tutti senza sminuirsi né tradirsi, al di là della nicchia di nerd e appassionati?

Sandman è un fumetto orgogliosamente freak, ma viene da chiedersi quanto questa “stranezza” formale sia una scelta e quanto una circostanza. Come è noto lo stile grottesco di Sam Kieth, il creatore grafico del personaggio insieme a Mike Dringerberg, strideva notevolmente con i toni del racconto (errore di rotta corretto dallo stesso Kieth che ha abbandonato la serie appena possibile, ovvero molto presto, alla fine del quinto numero), ma anche i disegnatori che gli sono seguiti, come Dringerberg stesso o Michael Zulli, non erano al loro meglio su quelle pagine.
Nata per cavalcare l’ondata della british invasion e il nuovo trend stabilito da Moore e dal suo Swamp Thing, The Sandman è un’opera decisamente figlia dei suoi tempi (per quanto riguarda lo stile dei disegnatori e la colorazione) e delle scelte della sua casa editrice: nel 1988, quando la serie è cominciata, Gaiman era uno scrittore non ancora noto al grande pubblico e il rilancio di un vecchio personaggio come Sandman era in fin dei conti un piccolo azzardo. Appena le cose hanno cominciato a girare e la potenza delle idee di Gaiman si è diffusa (e i numeri delle vendite hanno iniziato a far drizzare le orecchie a Vertigo/DC) anche i disegnatori, chissà se per caso o conseguentemente, sono cambiati. Sono arrivati Bryan Talbot, Charles Vess, Shawn McManus e Paul Craig Russell, artisti che come Dave McKean, precedente collaboratore di Gaiman e copertinista di Sandman, avevano già un’idea forte della pagina e che sono riusciti molto meglio a incanalare il torrente di parole dello scrittore nei loro disegni (altro notevole esempio di un artista che ha il senso della pagina e non si perde nella prosa di Gaiman è J. H. Williams III in Sandman:Overture).
Comunque, leggendo Black Orchid o altre sue opere in coppia con McKean, come Mr. Punch, oppure il suo ciclo su Miracleman con Chris Bachalo o i loro due lavori su Death, per non dire Books of Magic, quel che è palese è che Gaiman ha in testa la forma romanzo, non certo il fumetto. La sola lunghezza dei suoi dialoghi nei balloon ne è costante testimone. 

Gaiman è però un grande scrittore e soprattutto un creativo straordinario. Una sola idea delle decine che si trovano in ogni singolo arco narrativo di Sandman basterebbe per creare altrettanti film o graphic novel (un esempio su tutti è 24 hours pubblicata nel numero 6 del fumetto e trasposta nell’episodio 4 della serie), ma è come se la forma fumetto non sia quella definitiva per questa storia, pur essendo l’originale: la semplicità con cui la sua intricata e aulica trama é stata trasposta sullo schermo, sembra invece essere la sua reale destinazione.
Gaiman cerca da sempre storie che parlino al pubblico più vasto possibile: ce l’ha fatta con opere per ragazzi come Coraline e con romanzi per adulti come American Gods. Sandman è una storia stupenda e potente, colma di personaggi e situazioni archetipiche degne di ogni grande saga immaginaria che però è sempre rimasta meno conosciuta di altre, forse proprio per la sua forma di fumetto seriale: lunga, disarticolata e – spesso – mal disegnata. In più il suo incedere è estremamente romanzesco, con tutti quei personaggi secondari che ritornano all’improvviso assumendo per qualche numero il ruolo di protagonisti o tutte le divagazioni intimiste che occupano decine e decine di didascalie, quasi da non riuscire a vedere cosa c’è disegnato sotto. È palese che il fumetto stia stretto a questa storia (e al suo autore), così come questa storia sta stretta al fumetto, venendo così poco sfruttate le sue infinite possibilità narrative e formali.
Ecco però che nei tempi dilatati della serie tv, perfetti per una scansione a capitoli (molto più delle ventidue pagine mensili dei comic book), l’opera di Gaiman sembra molto più a suo agio, come fosse stata liberata. Può davvero arrivare a tutti, senza le limitazioni date dalle diverse interpretazioni grafiche (a volte i personaggi del fumetto sono irriconoscibili da un disegnatore all’altro) e soprattutto con quell’estetica laccata e leggermente glam da teen drama che in nuce la storia originale possedeva già ma che nella resa “fisica” risulta finalmente perfetta. Senza considerare poi il forte sottotesto gender fluid, a volte esplicito, a volte velato, già presente in origine, in largo anticipo sui tempi, e che ora centra perfettamente il momento.
Per cui sì, questo Sandman televisivo/cinematografico è decisamente il miglior Sandman possibile, capace di catturare i gusti e i modi del pubblico contemporaneo e di diffondere così, con ancora più potenza, le sue idee. Vedremo se verrà portato a termine e soprattutto se manterrà questo approccio.
Non sto dicendo che questa versione sia quella che preferisco, ma non posso non notare e apprezzare la sua perfetta collocazione di forma e sostanza nel tempo e nelle modalità.

Due appunti a lato:
mi ha stupito come la potenza deflagrante de Il battito delle sua ali, storia pubblicata nell’ottavo numero del fumetto e fondamentale nel mito di Sandman, sia stata completamente disinnescata dal passaggio televisivo nell’omonimo episodio 6 della serie: se nei fumetti di fine anni Ottanta un intero numero con due personaggi che non facevano altro che parlare, disquisendo con dolorosa levità del senso della vita, era cosa straordinaria e mai vista (e ancor di più se questi personaggi erano due personificazioni antropomorfe dei sogni e della morte), in una serie tv del 2022 la stessa situazione non fa nessun effetto, se non quello di ricordare le migliaia di scene simili già viste in altrettanti telefilm pomeridiani;
per quanto riguarda l’aspetto di Death invece, oggetto di numerose polemiche tra gli appassionati, a mio parere sarebbe stata molto più centrata se interpretata da un’attrice giapponese, visto il pallore e l’esilità della sua figura, o da una mediorientale, visto l’ankh egizio che porta al collo, più che da un’afroamericana muscolosa. Ma i tempi non sono evidentemente ancora maturi per vedere tutte le etnie umane ugualmente rappresentate nelle grandi produzioni cinematografiche, se non quando si é in cerca di un mercato particolare.

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