Raymond Briggs: Una passeggiata nel Sussex

Arabella Strange | Rorschach |

Rimandare le cose mi viene proprio spontaneo, anche se mi fa male dentro. È un automatismo simile a quello di proteggersi alzando le braccia prima di un frontale: potrebbe anche servire, ma è più vicino alla paralisi che a una strategia.
Lo faccio anche coi libri quando devo intervistare gli autori. Finisce che li leggo la sera prima, faccio tardi la notte, mi incazzo, chiudo il libro con gli occhi bollenti e la testa piena di frasi accatastate. La prossima volta lo leggerò prima! La prossima volta, a dir la verità, comincerò in anticipo ma poi inciamperò a pagina 40 e finirò comunque la notte prima. È così che va, bisogna che mi rassegni. Io, con il tempo, non ho mica un buon rapporto.

Ovviamente l’elemento tempo, in letteratura, mi affascina moltissimo. Lungo, in progressione lineare, o scomposto, da ricostruire leggendo, o ridotto a particella in un haiku, con il suo posizionamento stagionale che si disperde appena hai pronunciato l’ultima sillaba.
In novembre ho frequentato molti libri, ma uno in particolare ha dato da mangiare a questa mia piccola specifica ossessione.  Il tempo esiste perché esistono le scadenze. E non tutte le puoi procrastinare.

Quando è morto Raymond Briggs io credevo che fosse già morto. Babbo Natale, Babbo Natale va in vacanza e Il Pupazzo di neve mi sembravano provenire da un lontano passato di infanzie diverse dalla mia, infanzie in cui insieme ai disegni si leggevano più parole, le bambine avevano scarpe e calzini strani e i genitori portavano con sé un’aura da guerra mondiale.
Questo spaesamento temporale – quei libri sono degli anni Settanta, quindi avrebbero potuto tranquillamente abitare la mie letture di bambina – nasce dal fatto che la letteratura per l’infanzia come la penso ora è quella dei bambini di cui mi occupo in biblioteca: albi illustrati calibrati sulle età dello sviluppo, fino a sei anni parole al minimo, in una strisciolina, sotto una singola immagine che riempie il foglio. Io da piccola non ho avuto libri così. Ma nemmeno come quelli di Briggs. Sono cresciuta con immagini ancelle delle parole, decorative; bisognava lanciarsi e imparare a leggere tanto, imparare tante parole, approdare il più presto possibile ai racconti per i grandi. L’ho fatto. Adesso torno indietro a raccogliere i pezzi che ho perduto.
E le matite di Briggs sono incantevoli, i suoi personaggi si fanno amare, ma mi sono innamorata perdutamente di Briggs solo leggendo Quando soffia il vento. Già Ethel e Ernest mi aveva fatto capire la sua straziante grandezza, ma è Quando soffia che ho letto e riletto, fermandomi con lo stesso singhiozzo in gola sull’ultima tavola, quando non c’è più luce. «Nella valle della Morte cavalcarono tutti i seicento» dice Lui, mentre Lei muore, avanzando per prima in quel territorio che diventa davvero geografico solo quando sono passati abbastanza anni da farti percepire come ridicolo il numero di quelli che restano. C’è una bellezza insopportabile in questo libro di Briggs, in cui una umanità orrenda collide con meravigliosi piccoli esseri umani, e mi domando come ho potuto non sentirlo mio contemporaneo: non sono anch’io figlia di un’epoca in cui la Fine dei Tempi era facilmente identificabile con l’Apocalisse Nucleare? Quanta fantascienza me l’ha raccontata? Ma niente, Briggs era un signore intelligente, sensibile, gentile e spietato che veniva da un’altra epoca. Era più facile pensarlo così.

Quando è morto ho scoperto dai post su Facebook dei miei amici che era vivo, fino a poco prima. E mentre me ne dolevo – mi sembrava una cosa poco educata averlo seppellito anzitempo – ho individuato una frase che si ripeteva, con poche variazioni: «Ora le luci sono spente». Ho pensato che avrei approfondito, poi non l’ho fatto. Rimandare le cose mi viene proprio spontaneo.

Per fortuna anche i procrastinatori sono soggetti al fato, così mentre facevo passare gli acquisti delle biblioteche del 2022 È ora di spegnere le luci: Un memoir riluttante di Briggs me lo son trovato in mano.
Ci sono caduta dentro. L’ho letto lentamente per farlo durare di più. Alla fine, il libro era finito, e Briggs era morto davvero, e ho sentito che davvero avevo perso qualcuno. Perché questo è un libro in cui l’autore si lascia conoscere. Divide con te i suoi pensieri, si disfa di un pudore che l’ha accompagnato fin lì, nelle sue narrazioni, e resta armato solo del suo senso dell’umorismo di fronte alla decadenza, alla fatica, alla brevità della vecchiaia. Che «è un lavoro duro con orari sfinenti. E quando il turno finisce non c’è neanche un po’ di riposo», ci dice Briggs nei panni di Anonimo, nella citazione che apre il libro. E poi ci sono centinaia di pagine – non sono numerate e per come sono concepite se ne può avere solo una sensazione vaga, sono tante, dicono tante cose, sono pesanti, parlano di cose pesanti, quando finiscono è come se oltre ci fosse solo l’abisso, perciò la mano da sola torna a sfogliare la prima pagina – in cui Briggs, come in uno scrapbook disegna, scrive, incolla fotografie.
Parla di vecchiaia. Si domanda quanto gli resti da vivere. Disegna, a volte disegni compiuti – e io mi sono accorta che anche solo da uno stivalino appoggiato per terra puoi capire che la mano è quella di Raymond Briggs – a volte scarabocchi che servono a piazzare sulla carta un uomo, un cane, due uomini, per poter accompagnare al disegno dei dialoghi e delle annotazioni:  e anche nello scarabocchio a matita più essenziale si vede tutto, il muso del cane, il ginocchio dell’uomo, ma di più, l’intenzione del cane, l’espressione dell’uomo. «Le persone ansiose e pessimiste sono esposte a un maggiore rischio di demenza senile» sente dire Briggs, e io immagino che abbia aggiunto dentro di sé «Oh, beh, vedremo», dopotutto comincia a scrivere questo gigantesco oggetto letterario quando ha settant’anni e qualcosa, è presto per la demenza…
Non è presto, però, per fare dei bilanci, e quello più doloroso riguarda Jean, sua moglie, morta trent’anni prima, una donna bellissima di cui ci mostra le fotografie, domandandosi cosa lei abbia mai visto in lui. Sono fotografie bellissime, e mi sono domandata come sia possibile che l’opera di Briggs sia stata abitata, permanentemente, dai sui genitori, e non da questa donna, il cui corpo vivo e magnifico esplode nella pagina. Jean, ci racconta, era schizofrenica, ed è morta improvvisamente, giovane, di leucemia.
Forse nel momento in cui rifletteva così tanto sulla propria morte Briggs non ha più voluto districarla da quella di lei. La presenza di Jean è fortissima in tutto il libro, quando parla di lei, avverto nelle sue parole una specie di sollievo. Briggs si accorge di essere vecchio e, in un universo che un diverso rapporto col tempo ha ridisegnato, colloca Jean nell’Oltre. Jean è già nell’ignoto, nell’indicibile. Se c’è lei ci può andare anche lui. Non leggo niente di metafisico in questo, solo una questione di territori. Se c’è lei, non è un territorio inesplorato, ma solo un territorio in cui lui non è ancora stato.

Ma non è la morte la protagonista del libro. È la fottuta vecchiaia! La memoria che se ne va, le relazioni sociali che diminuiscono, il corpo che ti tradisce. Ci sono i bambini, i figli e nipoti della compagna, Liz, che portano un po’ della loro vita nella casetta di Westmeston, magari cantando una canzone di Monty Pithon: «Ogni spermatozoo va veneratooo!». Tutto il resto è «casa / mangiare / vino / divano / moglie / tele / giornale / libro / cane / letto / leggere / serenità». Perché essere vecchi regala la gioia di dire di NO a tutto. Vestirsi, guidare, stare in fila, rumore… No è la parola d’ordine. Frapposte alle pagine in cui Briggs si rammarica, ci sono anche quelle in cui stabilisce i confini di quello che il mondo può ancora chiedergli: pochissimo. Le “Regole della vecchiaia” incise su una tomba nel cimitero di Westeston si aprono così: «Ricorda che non sei tenuto a fare cose che non ti va di fare. Solo la legge può costringerti a fare qualcosa».
Tra le cose che a Briggs andava di fare evidentemente c’è questa «approfondita riflessione psicologica sui temi della vecchiaia e della morte». E poi, da solo, si dice «Mi sembra una boiata pretenziosa. / Sì, be’, forse…»

Accompagnare Briggs in questa avventura è stato bellissimo e straziante. Sono mesi in cui ho dovuto pensare moltissimo alla morte. Un po’ anche alla mia, che sono più giovane di Briggs, ma non lontanissima dall’età in cui lui ha cominciato a pensare che la vecchiaia lo riguardasse.
Pensandoci bene, non è vero. Sono abbastanza lontana. Com’è che allora mi sento come se mi riguardasse? Succede con i libri potenti. Non mi stancherò mai di vederlo succedere. Raymond Briggs è riuscito a prendermi sottobraccio e siamo scesi insieme nella Valle della Morte, che io immagino ora un po’ come una valletta del Sussex, erba, pioggia, cani.
Noi camminiamo, attenti a dove mettiamo i piedi.

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