HME o dell’ostinazione

Boris Battaglia | Strani anelli |

Non ce la possiamo permettere. Una sede fissa dove tenere le riunioni di redazioni di QUASI. Ma questo mica è uno svantaggio. Anzi. Quando ci si vede, il mio socio e io, per discutere del programma editoriale dell’anno a venire, o del tema del mese, o dei pezzi da infilare nel prossimo numero di carta, o della linea da tenere rispetto a un particolare momento di crisi o di conflitto nel mondo dei fabbricatori d’immaginario a fumetti, ci infiliamo o al solito bar (Paolo ha il suo, io ho il mio e facciamo un po’ a turno), o in qualche scrauso cinese di quelli che piacciono a Paolo o in una trattoria un po’ lurfida di quelle che piacciono a me.
Ce n’è una, di queste trattorie, che amo particolarmente. Quando ci entri piombi direttamente in un romanzo di Umberto Simonetta. Cioè, nella versione contemporanea dei luoghi e dei tipi che lui ha raccontato nei suoi romanzi e nelle sue canzoni, e che avrebbero bisogno di un nuovo Simonetta per essere raccontati oggi. Insomma, in quella trattoria non rischi di incontrare scrittori, scalatori di montagne tirolesi, contraddittorie pasionarie cattoqueer, giallisti ortodossi del turtlén e narratrici il cui orizzonte si esaurisce alla ringhiera delle loro terrazze capitoline. Solo lavoratrici e lavoratori rassegnati, coppie stagionate, e qualche perditempo come noi.
Non credere che sia in qualche anfratto di periferia. Sta in una zona abbastanza centrale e luccicante di Milano. È che quelli che di solito si divertono a parlare male di questa città, non girano mai l’angolo. Si tengono sempre sulla main street, attirati dalle vetrine e dai luccicori, stanno lì pasolinianamente a lamentarsi della gentrificazione e del costo della vita e non si infilano mai nelle strade laterali.
Insomma: siamo lì, che beviamo un bianco appena potabile (quello della casa) e parliamo di QUASI, quando – in un raro momento di nostro silenzio – forse erano arrivate le cotolette – cogliamo un frammento della conversazione che sta avvenendo a un tavolo lateralmente poco discosto dal nostro. È una coppia non più giovane, un po’ manomessa, ma che appare ancora molto affiatata. Marito e moglie, compagni, amanti, colleghi? Boh. Il frammento che ci arriva lo pronuncia lei, con marcato accento francese: «occhio ostinato». Non sappiamo a chi o a cosa si riferisse, ma l’idea di questo occhio, di questo sguardo che non sa arrendersi, ci cattura e non ci lascia al punto da volerci dedicare un mese di QUASI.

Non so, e non ho le competenze per capirlo, se David Lucas Burge sia un cialtrone che si è inventato un modo per vendere il suo metodo o se quanto sostiene sia una cosa con validi fondamenti scientifici. Però è una teoria che trovo affascinante. Nel saggio introduttivo al suo corso per formarsi un orecchio musicale, The perfect pitch ear training, sostiene che tutte le note hanno una qualità simile al colore visivo e che questa qualità le differenzia le une dalle altre. Se alleniamo i nostri sensi a lavorare in sinestesia uditivo/visiva possiamo percepire tali differenze e costruirci un orecchio assoluto.
Ti ripeto: non so quanto ci sia di vero, né se il suo metodo funzioni. Ma non è rilevante. Non mi interessano metodi per imparare. Mi interessa una strategia per conoscere e comprendere, e Il concetto di “contaminazione” tra un orecchio assoluto e uno sguardo necessariamente ostinato mi sembra che ben rappresenti la via da seguire per comprendere al meglio il mondo.

Quella merda di Jeremy Bentham nel 1791 progetta un carcere ideale strutturato in modo che un unico sorvegliante possa osservare tutti i soggetti carcerati (sistema che applicherà poi alla sua fabbrica, dove lavoravano proprio dei galeotti), e lo chiamerà Panoptikon. Molti filosofi useranno questo concetto come metafora del potere, ma quello che è importante notare è che il progetto di Bentham si basa sull’idea di uno sguardo totalizzante che vede in modo distinto tutto ciò che deve vedere.

Il 24 novembre è morto, a 93 anni, Hans Magnus Enzensberger. Rubo le parole che Buccia ha usato su twitter: era l’unica figura che associavo alla parola “intellettuale” senza intento denigratorio. Sull’onda emotiva della sua scomparsa, quelli che non riescono a trattenersi dal far vedere quanti libri hanno letto, ti hanno consigliato tutti di leggerti, se non l’hai mai fatto, La breve estate dell’anarchia. Per carità, se non l’hai mai fatto, fallo: è un libro bellissimo, dal quale apprenderai non tanto, come ha scritto quell’intellettuale vanesio (e intellettuale sia detto qui, invece, con il più convinto tono denigratorio) di Saviano, come si difende la libertà, ma piuttosto quanto è necessario ostinarsi a costruirla, nonostante la certezza di essere sconfitti.
Refrattario a ogni percorso lineare del pensiero (se a Hegel disegni i baffi, somiglia così tanto a Stalin, sostenne nel poema La fine del Titanic, 1978) si muoveva a zig zag tra natura, cultura e ideologia (il suo libro che amo di più, una raccolta di saggi provocatori sul tempo, la cultura e il potere scritti tra il 1989 e il 1998 si intitola proprio Zig Zag) con assoluta dimestichezza. Un metodo per comprendere il reale, che, pensandoci adesso, mi ricorda quella sinestesia di cui ti dicevo prima.
Metodo perfettamente esemplificato in quel gioiello che è il suo Panopticon, raccolta di venti saggi da leggere in dieci minuti ognuno, che variano dall’economia, al sesso, passando per la filologia, ma il cui unico intento è tenere uno sguardo critico sul mondo. Sguardo che non è, come quello di Bentham assoluto e totale, ma mobile e ostinato nel suo problematizzare la realtà e i suoi oggetti. Il panopticon cui Enzensberger si riferisce, non è il carcere utilitaristico del filosofo inglese, ma il nome che il comico tedesco Karl Valentin negli anni Trenta del secolo scorso aveva dato a una wunderkammer di sua costruzione. L’ostinazione del nostro sguardo può e deve sovvertire il mondo, come cercarono di fare gli anarchici nella loro breve estate, ma per farlo deve sempre restare fisso su tre punti focali: sinestesia, meraviglia e divertimento.

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